Mentre ogni giorno continuiamo ad affrontare il dramma e le difficoltà legate alla pandemia di Covid-19, a distanza di oltre un anno voglio riprendere il primo editoriale che scrissi all’indomani dell’emergenza. L’editoriale in questione si intitolava Quando il cigno non è nero e apriva un numero di Reputation Review per noi molto importante, ovvero quello in cui intervistammo l’allora Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in occasione dello studio che realizzammo insieme a SEMrush sulla Reputazione dei governi durante i primissimi mesi di crisi globale. Come forse alcuni di voi ricorderanno, l’editoriale ruotava intorno al concetto – forse allora controcorrente rispetto all’ondata di spavento che ci stava travolgendo – che la tragedia che stavamo per affrontare non fosse, a mio avviso, catalogabile come “cigno nero” (ovvero un evento totalmente imprevedibile), ma al contrario fosse un fenomeno intrinseco al mondo complesso in cui ormai viviamo.
Lungi dal voler essere un esercizio di “futurologia”, nell’articolo mi limitavo a osservare come:
- un mondo iperconnesso sia particolarmente vulnerabile a tutti i fenomeni in grado di attaccare e mettere in crisi le nostre reti (sociali, economiche, tecnologiche);
- il mondo negli anni recenti abbia assistito a innumerevoli pandemie, e il fatto che queste avvenissero fuori dall’Occidente (e che in maniera piuttosto fortuita restassero confinate in quei paesi) non ci autorizzava a sentirci immuni – se non in virtù di quel retaggio secolare che ancora abbiamo e per cui riteniamo la società occidentale “più evoluta” e quindi “migliore”;
- negli anni siano stati lanciati diversi appelli in questo senso da molte organizzazioni e leader (come ad esempio Bill Gates), a dimostrazione che, nonostante quegli appelli fossero caduti nel vuoto, il fenomeno non era del tutto “imprevedibile”.
In poche parole, nell’articolo evidenziavo che se da una parte gli esiti del fenomeno erano di certo imprevedibili, ciò non doveva scoraggiarci dal capirne le dinamiche perché soltanto così avremmo potuto evolvere i nostri sistemi (sociali, economici e tecnologici) adattandoli alle nuove sfide che li attendevano. Detto altrimenti, credo che dovremmo considerare la pandemia che stiamo vivendo non come la causa della crisi, ma come un sintomo.
Se è vero che in un mondo iperconnesso qualunque fenomeno di rete che sia sufficientemente potente e pervasivo può bloccare gli ingranaggi dei nostri sistemi, e se è vero che i virus biologici sono i vettori ideali e non possiamo escludere – anzi forse dobbiamo aspettarcelo – che assisteremo ad altre pandemie nel corso della nostra vita, c’è almeno un altro fenomeno che a mio avviso potrebbe presto diventare il “nuovo Covid” ed è la criticità delle infrastrutture informatiche.
Per prima cosa, da qualsiasi punto la si osservi la rete informatica mondiale ha visto nel corso degli anni aumentare in maniera esponenziale il numero di nodi e di interconnessioni: sia che prendiamo in considerazioni il numero di persone connesse a internet, il numero di device che ciascuno possiede, la quantità di siti, server, integrazioni tra applicazioni diverse e quantità di dati raccolti, la rete informatica è letteralmente esplosa negli ultimi anni. Soprattutto, la rete informatica è a sua volta sempre più interconnessa con gli altri sottosistemi di un mondo complesso (i sistemi sociali, quelli economici, ecc.), diventando nevralgica e acquisendo così ogni giorno maggiore valore (basti pensare a tutte le attività che ormai non sapremmo più svolgere senza l’ausilio dei software).
Secondo poi, la crescita della rete si sta accompagnando a una crescita delle “tensioni”, ovvero della misura in cui i nodi non sono perfettamente integrati tra loro. Per fare alcuni esempi, basti pensare al valore che i dati hanno raggiunto e come i paesi di tutto il mondo si stiano scontrando sui limiti da imporre (o non imporre) alla loro raccolta; oppure si badi a come, ogni anno, tanto le aziende private, quanto le istituzioni sono sempre più oggetto di ricatto tramite i cosiddetti attacchi ransomware, o ancora all’esercito sterminato di chatbot che entra in azione a ogni campagna elettorale.
Infine, nonostante ciascun singolo nodo che compone la rete informatica appartenga di fatto a uno Stato, nel suo insieme la rete è globale e i tentativi di ridurla all’interno della dialettica tra Stati sovrani sono quasi sempre inconcludenti. A mio avviso, questo aspetto costituisce un altro elemento di criticità e di paragone con la crisi che stiamo vivendo nell’ultimo anno e mezzo, essendo stata anch’essa da subito caratterizzata dalla difficoltà di condividere piani di azioni, responsabilità e sacrifici tra i diversi ordini gerarchici dei nostri sistemi sociali ed economici.Dall’attacco ai sistemi Solarwind di dicembre 2020 fino al più recente attacco a Kaseya, è ormai evidente come aggredendo hub vulnerabili all’interno di una rete (ovvero singoli nodi particolarmente iperconnessi – ossia molto utilizzati) si possa in maniera relativamente semplice mettere in crisi l’intero sistema. Cosa succederebbe se domattina ci svegliassimo con un mondo in lockdown informatico?