Numerosi studi l’hanno già dimostrato: i social media prosperano sull’indignazione e sul contagio emotivo e le conseguenze di questi meccanismi stanno decimando la nostra capacità di comprensione reciproca.
Come psicologo, però, l’aspetto che trovo più interessante – e sottovalutato – di questo fenomeno è come alcune teorie della psicologia individuale, come quella che spiega le nostre reazioni davanti al pericolo, possano aiutarci a capire le dinamiche dei social media.
Resti o scappi?
Il primo a studiare il modo in cui gli animali (inclusi gli esseri umani) reagiscono a un evento percepito come pericoloso per sé stessi o per i loro cari è stato il fisiologo statunitense Walter Cannon.
È lui il padre della teoria del fight or flight, il meccanismo psicofisico che ci porta appunto a scappare davanti al pericolo o a fuggire.
A prescindere dalla nostra reazione, gli effetti che ha questo meccanismo sono gli stessi: di fronte al pericolo, l’amigdala, una delle parti del nostro cervello, innesca in maniera involontaria il rilascio di cortisolo e adrenalina, che a loro volta si traducono in una serie di reazioni fisiche che facilitano un’azione muscolare violenta e improvvisa (per l’appunto combattere o scappare, che sono le due principali reazioni che abbiamo).
Esiste poi un terzo meccanismo, noto come congelamento (freezing), il cui funzionamento si deve invece alla sostanza grigia periacqueduttale, una porzione di materia grigia che, una volta percepito il pericolo, a sua volta attiva la piramide, una parte del cervelletto, che blocca il corpo.
Perché racconto tutto questo?
Perché i social media sfruttano, tra le tante cose, i nostri meccanismi di autoconservazione e non ci lasciano il tempo per pensare, per metterci nei panni degli altri, per guardare alla complessità.
Il momento in cui si è attaccati, infatti, non è il momento di riflettere sulla prospettiva dell’aggressore o di cercare di risolverla attraverso una discussione ragionata. Solo una volta che siamo al sicuro, le risorse di pensiero ritornano e si è in grado di valutare meglio cosa fare dopo o di prevenire conflitti simili in futuro.
C’è di più: i social media ci spingono ad attivare questi meccanismi di autodifesa in continuazione. Ogni giorno, anzi: ogni volta che apriamo l’app di Facebook, Instagram o TikTok.
La natura di questa indignazione condivisa ci mantiene generalmente in uno stato di reattività continua che fa tutte le conseguenze negative di cui ho parlato prima – limitazione del nostro pensiero e riduzione della nostra capacità di capirci l’un l’altro – in ultima analisi, ci divide ulteriormente.
In ultima istanza, essere in uno stato di reattività porta senza ombra di dubbio al fallimento della comprensione, perché la comprensione stessa mette a repentaglio la reattività e umanizza l’altra parte. A sua volta, l’incapacità o il rifiuto di comprendere l’altro contribuisce a disumanizzarlo.
Comprendere non significa scagionare atti efferati o giustificare l’ingiustificabile, ma significa accettare l’esistenza di un contesto significativo alla base degli eventi. Il rifiuto di capire è una garanzia che la reattività reciproca continuerà, probabilmente verso la distruzione reciproca.
E quindi? Avendo tutto questo in mente, viene allora spontaneo chiedersi: perché tornare in luoghi dove spesso ci sentiamo profondamente incompresi, attaccati, giudicati o comunque a disagio?
Forse perché l’indignazione non è una sensazione particolarmente piacevole, ma è eccitante. Sfogarsi, dopotutto, ci fa sentire bene, ecco perché lo facciamo. Anche se non porta a nessun risultato, se non quello di farci tornare indietro per averne ancora.
Se c’è qualcosa di positivo da trarre da questa situazione è che ciò a cui stiamo assistendo mette in luce un problema che non può più essere ignorato. I social media sono troppo importanti per essere lasciati nelle mani di tecno-oligarchi, soprattutto quando, nel migliore dei casi (mi riferisco a Zuckerberg), non sono disposti a fare il necessario per risolvere il problema, o peggio (mi riferisco a Musk) vi contribuiscono direttamente.
Molti di noi utilizzano i social media per sfogare la propria frustrazione, condividere la propria indignazione, unirsi ad altri che condividono il nostro punto di vista. Altri vogliono usare la propria voce perché gli altri la sentano. Per mostrare che esiste un altro punto di vista. Per educare.
Se vogliamo superare le divisioni, è fondamentale essere in grado di avere un impatto significativo l’uno sull’altro. Ma è necessario chiedersi se un determinato mezzo di comunicazione sia il migliore o il più appropriato per farlo.
E quindi chiederci: Instagram (o qualsiasi altro social) è davvero la piattaforma migliore dove pubblicare questo contenuto? Le persone che mi seguono, chi sono? Quante sono? Sono pronto a discutere su questo tema? Credo che questo luogo sia il migliore per farlo?
Ma anche: pretendere regolamentazioni migliori, tenendo sempre a mente i loro limiti. Credo, infatti, che la regolamentazione funzioni quando riesce davvero a cogliere la parte essenziale del discorso, e ad intervenire solo su quella. Sarebbe utile, ad esempio, intervenire con regole che deleghino una moderazione responsabile dei contenuti a organismi terzi certificati e garantiscano trasparenza sugli algoritmi. Ma sarebbe solo l’inizio: è essenziale infatti comprendere che gli strumenti si evolvono costantemente, e i regolamenti devono essere flessibili e adattabili.
Pertanto, oltre alla regolamentazione, è cruciale investire nell’educazione. La mia proposta? Prendere in prestito un’ora di didattica dalle lezioni di filosofia, una da quelle di educazione civica e una da quelle di storia e dedicarle a una nuova materia che unisca queste prospettive applicandole ai temi della cittadinanza consapevole nell’epoca digitale.
Finché i nostri social media non miglioreranno (e molto probabilmente non lo faranno), spetterà a noi infatti fare scelte migliori per noi stessi e, si spera, per non alimentare di proposito la macchina dell’indignazione.