Una delle innovazioni tecnologiche che in questi anni sta avendo impatti sempre maggiori nelle attività quotidiane di istituzioni, enti e singoli individui è legata al Machine Learning, ovvero allo sviluppo di sistemi di apprendimento per i software. Il Machine Learning è senza dubbio una delle tecnologie di punta in questo momento e da circa un anno l’abbiamo implementata e continuiamo ogni giorno a svilupparla sul nostro Reputation Rating. Giusto la scorsa settimana ho partecipato a un incontro sul Machine Learning tenutosi a Milano, e a valle di questo condivido qualche spunto per quanto riguarda la dimensione etica legata a questa tecnologia. L’innovazione tecnologica ci permette infatti di superare i vincoli che rendevano alcune azioni impossibili, rendendole ora possibili, ed essendo quindi in ultima analisi la tecnologia la nostra capacità di manipolare ciò che è naturale inevitabilmente ogni innovazione ci pone nuovi interrogativi etici.
Se ad esempio per soddisfare la crescente domanda di energia abbiamo bisogno di nuove fonti da cui attingere, grazie all’innovazione tecnologica siamo in grado di produrla partendo dalla fissione nucleare oppure dalla luce solare, oppure di attingere a giacimenti di combustili fossili situati a profondità in precedenza inaccessibili. Allo stesso modo siamo in grado di costruire nuovi strumenti, eseguire calcoli più potenti ed effettuare analisi più accurate. Quando nel dicembre del 1954 è entrato in servizio l’IBM Naval Ordnance Research Calculator (NORC), il primo supercomputer della storia, la sua potenza gli premise di calcolare ben 3089 numeri decimali del Pi greco in soli 13 minuti. Se nel 1954 l’IBM NORC poteva effettuare 15.000 operazioni al secondo, oggi chiunque è in grado di noleggiare in cloud per poche decine di dollari un server con la stessa potenza di calcolo mentre il suo pronipote D-Wave Two (un computer quantistico) è in grado di svolgere in 3 minuti e 20 secondi i calcoli che fino a ieri un computer avanzato avrebbe svolto in 10.000 anni! Pensiamo a un qualsiasi lavoro: per compierlo esistono probabilmente diverse combinazioni possibili di dotazione tecnologica, tempo, soldi, lavoro e conoscenze. Se volessimo oggi costruire delle piramidi identiche a quelle costruire 4.500 anni fa a Giza, potremmo ottenere lo stesso risultato utilizzando più tecnologia e forse maggiori conoscenze, il che ci porterebbe probabilmente a dover utilizzare minor tempo e una minore quantità di lavoro (operai); proprio come se avessimo dovuto calcolare i primi 3089 numeri decimali del Pi greco nel 1954 avremmo avuto bisogno di 15 secondi e oggi ci metteremmo una frazione infinitesima di secondo.
A questo punto la domanda sorge allora spontanea: se con l’aumentare della tecnologia disponibilità si riduce la quantità di lavoro umano necessario, non stiamo allora andando verso un mondo in cui ci sarà una sempre maggiore disoccupazione? Cosa mi dovrebbe far pensare che, qualunque sia il lavoro che io oggi svolgo, io non possa un domani aggiungermi alla schiera di lampionai, lattai, centralinisti e manovratori di ascensori che nei decenni passati lavorano quotidianamente nelle nostre città? Anche se le statistiche non confermano questa ipotesi, visto che i tassi di disoccupazione continuano ad avere andamenti ciclici senza mostrare trend significativi nel corso dei decenni, alcune cose sembra stiano negli ultimi anni cambiando sensibilmente.
Quando i lampionai o i lattai di tutto il mondo hanno perso il proprio lavoro, compatibilmente con lo stato dell’economia nei propri paesi avevano un’ampia scelta di nuovi lavori da fare: magazzinieri, postini e uscieri erano lavori che non richiedevano una grande preparazione e di conseguenza un’ampia mobilità orizzontale consentiva loro di spostarsi senza troppe difficoltà da un lavoro all’altro. Le professioni che richiedevano una lunga e costosa formazione specifica erano poche, sostanzialmente solo quelle dei medici e degli avvocati: a parte queste, con un po’ di esperienza qualunque lavoratore poteva nel giro di poco apprendere un nuovo mestiere. Oggi la situazione appare decisamente cambiata proprio perché sempre un maggior numero di attività a basso valore aggiunto sono delegate ai software e alle macchine e i lavori demandati alla specie umana richiedono una formazione sempre più specifica e complessa.
Uno degli aspetti messi in luce da chi guarda con maggiore ottimismo al progresso tecnologico è che per ogni attività nella quale la specie umana diventa svantaggiata rispetto ai software ce ne è almeno una nuova che nasce proprio in virtù di tale progresso: certo, cent’anni fa c’erano lampionai e lattai, ma oggi ci sono programmatori di APP per smartphone e un numero impressionante di ricercatori medici. Non è forse meglio? Negli Stati Uniti nel 1970 sono stati conseguiti meno di un milione e trecentomila titoli di studio universitari, nel 2017 questo numero è triplicato (National Center for Education Statistics, 2018). Il trend riguarda ovviamente tutto il mondo: nel 1970 solo 12 paesi avevano più del 5% di laureati, nel 2010 questo numero è aumentato a 81 (Barro, et al.): per quale motivo non dovremmo essere ottimisti? In realtà non esiste nessun motivo per non esserlo, così come non ne esiste nessuno per esserlo: quel che però è certo è che le statistiche sul passato non è detto ci siano di grande aiuto per immaginare il futuro.
Se dal 1970 al 2010 nel mondo si è verificato un boom di laureati, possiamo pensare che questo fenomeno abbia senz’altro contribuito nell’accelerare il progresso tecnologico il quale, a sua volta, ha contribuito a sviluppare nuove specializzazioni e nuove innovazioni. Questo circolo virtuoso ha fatto sì che se tra la seconda e la terza rivoluzione industriale sono dovuti trascorrere circa cent’anni, tra la terza e la quarta rivoluzione ne sono trascorsi meno della metà (World Economic Forum, 2016). Come abbiamo visto l’innovazione tecnologica tende a rendere la specie umana meno competitiva rispetto ai software nelle attività a basso valore aggiunto, mentre al contrario le nuove professioni che vedono la luce richiedono competenze tecniche sempre più complesse e specializzate. Questo fa sì che il costo della formazione tenda ad aumentare (sia in termini economici che di tempo) e di conseguenza sia sempre più difficile riconvertire la forza lavoro (un lampionaio oggi farebbe molta più fatica a imparare ad aggiustare un’automobile elettrica di quanta non ne avrebbe fatta cent’anni fa con una completamente meccanica).
Se i percorsi formativi diventano sempre più lunghi, complicati e costosi, e se i lavori riservati alla specie umana avranno sempre più bisogno di questo tipo di formazione, scegliere efficacemente i percorsi formativi per ciascun ragazzo diventerà sempre più un fattore critico per le società poiché la minore disponibilità di lavori “non specialistici” renderà ogni insuccesso ancora più costoso: se oggi un architetto costretto a fare il cameriere è un problema, che dire quando i camerieri saranno sostituiti da droni ai quali non dovremo lasciare neanche la mancia?