Nel corso degli ultimi decenni, si è radicata l’idea che l’Occidente, la democrazia liberale e il capitalismo costituissero un triangolo inscindibile, quasi che la vittoria dell’uno dipendesse necessariamente dalla vittoria degli altri due. Tale convincimento è divenuto più forte dopo la fine della Guerra fredda: con il crollo dell’Unione Sovietica, sembrava che il modello occidentale di democrazia rappresentativa, sostenuto da un’economia di mercato, fosse destinato a imporsi su scala globale come esito “naturale” dell’evoluzione politica ed economica dell’umanità.
Quando, nel 1989, i regimi comunisti iniziarono a sgretolarsi in Europa orientale, e la cortina di ferro fu smantellata, l’idea dominante (sintetizzata brillantemente dal lavoro di Francis Fukuyama) era che la storia stessa, intesa come scontro tra alternative politiche e ideologiche fondamentali, fosse ormai giunta al termine. In altri termini, stava emergendo un consenso globale secondo cui la combinazione di democrazia liberale e capitalismo non avesse veri rivali.
A sostenere tale visione contribuiva l’idea che la democrazia non fosse soltanto un patrimonio culturale dell’Occidente, bensì un modello “universalmente” desiderabile. Una volta constatati i benefici del liberalismo politico – come la garanzia delle libertà individuali, la difesa dei diritti umani, la libertà di stampa e di associazione – e il benessere generato da un’economia di mercato, si pensava che ogni società, a prescindere da tradizioni e peculiarità culturali, avrebbe dovuto aspirare a imitare l’Occidente. Si guardava con ottimismo all’espansione delle istituzioni democratiche e al consolidamento del capitalismo in vaste regioni del mondo, dall’Est Europa all’America Latina, passando per parti dell’Asia.
Il dubbio però era che forse, piuttosto che di fronte a una reale “fine della storia”, ci siamo semplicemente trovati di fronte a un congelamento dell’immaginario politico. Benché il binomio “capitale e libertà” risultasse trionfante nel contesto post-Guerra fredda, esso non si dimostrava altrettanto inattaccabile in altre parti del pianeta. Alcuni Paesi, in particolare nel Sud-Est asiatico, iniziavano a sviluppare forme di capitalismo “autoritario”, in cui la crescita economica rapida non era accompagnata da un parallelo progresso dei diritti politici. Questo mostrava che il capitalismo non necessitava sempre e necessariamente di un ambiente democratico per funzionare o prosperare: anzi, in alcuni sistemi autoritari, le riforme di mercato procedevano a passo sostenuto, pur in assenza di una piena libertà politica. Ciò poneva un primo interrogativo sull’indissolubilità di capitalismo e democrazia.
Con la crescente globalizzazione, il capitalismo si è rivelato un fenomeno talmente pervasivo da travalicare i confini e adattarsi in maniera flessibile a contesti culturali e politici molto diversi. In Occidente, il legame tra democrazia e mercato ha retto piuttosto bene, ma ha anche mostrato segni di stress. Le disuguaglianze economiche, la delocalizzazione della produzione e le crisi finanziarie hanno talvolta generato sfiducia nelle istituzioni democratiche, aprendo la strada a nazionalismi e populismi che talora mettono in discussione tanto il liberalismo quanto l’ordine democratico.
In una prospettiva storica di lungo periodo, resta però aperta la domanda: la democrazia può essere davvero sostenibile senza una base economica di mercato? E al contempo, il capitalismo può rimanere stabile senza un quadro di libertà politiche ed equi meccanismi di partecipazione? È possibile che nel corso dei prossimi decenni si assista a sperimentazioni politiche ed economiche molto diverse da ciò che l’Occidente ha promosso finora, e che nascano modelli ibridi, che uniscano componenti del liberalismo e dell’autoritarismo.
L’idea che Occidente, democrazia e capitalismo fossero tre dimensioni inseparabili e destinate a prevalere globalmente è stata una delle convinzioni fondanti dell’ordine mondiale del secondo dopoguerra e, soprattutto, del periodo post-Guerra fredda. Tuttavia, gli sviluppi geopolitici, lo spostamento delle opinioni pubbliche occidentali verso offerte politiche di stampo autocratico e l’ascesa di nuovi attori internazionali hanno dimostrato che tale connubio non è così monolitico né garantito. Resta da vedere se la traiettoria futura dell’umanità si allineerà nuovamente a quel paradigma – magari in forme rinnovate – oppure se emergeranno sistemi misti in grado di competere e, forse, di sostituirlo.
In entrambi i casi, una riflessione critica sull’indissolubilità di questo trinomio è più che mai necessaria: la capacità di adattarsi a nuove sfide e di coniugare libertà individuali con prosperità economica rimane al centro del dibattito sul futuro della democrazia nel mondo.