Chi ha imparato a conoscermi leggendo Reputation Review, sa bene quanto mi affascina il modo in cui tecnologia e psicologia si intrecciano tra loro, in particolare rispetto alla nostra percezione del tempo. Questo che avete tra le mani è non soltanto il primo numero dell’anno del nostro magazine, ma anche il primo del nuovo decennio, e il mio pensiero si rivolge inevitabilmente a quello che potrà accadere nei prossimi dieci anni.
Non è infatti difficile immaginare che il prossimo decennio sarà quello con il più grande numero di cambiamenti della storia dell’umanità. Basti pensare che dalla caduta del muro di Berlino (1989) ci separa più o meno lo stesso numero di anni che allora ci divideva dallo scoppio della guerra in Vietnam (1955) e prima ancora dall’inizio della Prima guerra mondiale (1914).
Cambiamenti che in precedenza avevano bisogno di secoli per generarsi, e poi di decenni, oggi si sviluppano in pochi anni. Se ripensiamo a dieci anni fa, le tecnologie come i social network, il machine learning o la blockchain erano quasi sconosciute o non esistevano affatto. E allora, quando tra dieci anni ci guarderemo indietro, che cosa sarà successo?
Provo a darmi la mia opinione al riguardo, osservando i trend tecnologici del momento, ma in gran parte attingendo alla mia fantasia.
Quattro grandi cambiamenti metteranno in crisi il mondo.
Per prima cosa, cambierà il nostro concetto di “conoscenza”, che negli ultimi tre secoli è stato sempre più legato alla scienza, in virtù della sempre maggiore diffusione del Machine Learning. Gli algoritmi predittivi verranno probabilmente decentralizzati sui device (“on the edge”) in virtù delle normative sulla privacy, ma il risultato non cambierà. E inevitabilmente comporterà la produzione della maggiore quantità di informazioni che l’umanità abbia mai concepito in tutta la sua storia.
Gli algoritmi AI diventeranno l’unico modo di produrre conoscenza dalla sterminata mole dei Big Data, e per la prima volta gli esseri umani perderanno il controllo delle modalità con cui tale conoscenza viene generata. La nostra società si troverà a dover prendere decisioni sulla base di informazioni elaborate secondo algoritmi opachi, e questo comprometterà irrimediabilmente la stabilità del sistema politico attuale.
Secondo: il concetto di “verità” dovrà essere ripensato. Perché non solo le fotografie e gli audio, ma anche i video potranno essere facilmente contraffatti, con i cosiddetti video “deepfake”. Assisteremo alla pubblicazione di immagini in cui vedremo il presidente degli Stati Uniti dichiarare guerra alla Russia, oppure in cui un ufficiale di polizia dichiara di aver ucciso a manganellate un manifestante di colore senza alcun rimorso. Questo destabilizzerà ancora di più il sistema politico e sociale e il risultato sarà la necessità di istituire organizzazioni in grado di certificare l’autenticità dei media, ad esempio tramite blockchain.
Che Internet sia diventato un elemento destabilizzante per la nostra società lo abbiamo già capito nel decennio appena concluso. La Primavera araba, il ruolo controverso dei social network nelle ultime elezioni americane, accusati di diffondere fake news, ce l’hanno dimostrato. È probabile dunque che nel prossimo decennio la criticità del ruolo di Internet nello scacchiere geopolitico ci porterà a una guerra per averne il controllo, ad esempio con la nascita di organizzazioni alternative all’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) per la gestione dei DNS (i sistemi di dominio). A quel punto avremo molti Internet, con sistemi che risponderanno alle influenze della Russia, oppure della Cina, eccetera.
Come terzo punto, dovremo ripensare anche il nostro patto sociale. La digitalizzazione dei processi produttivi spezzerà in maniera irreversibile il legame tra attività produttive e territorio, ovvero tra aziende e Stati nazionali. Ciò comporterà la crisi dei sistemi di tassazione, visto che delocalizzare i processi produttivi sarà sempre più semplice e rapido e questo aumenterà la concorrenza fiscale tra gli Stati.
Di contro aumenteranno tanti costi, quelli legati al sistema welfare per fare un esempio, e questo mi porta al quarto punto, ovvero al dover ripensare anche i nostri ruoli sociali. In un mondo in cui il lavoro sarà sempre più scarso e sempre più qualificato (quindi meno accessibile) e dove gran parte delle attività produttive verrà delegata alle macchine.
Per mantenere l’ordine pubblico gli Stati dovranno garantire non soltanto un reddito universale, ma anche l’assistenza welfare di base a tutti i cittadini, anche se la maggior parte di essi non saranno produttivi. La nostra società sarà così divisa in due gruppi: il primo, più ristretto, sarà composto di individui altamente formati e produttivi, il secondo da cittadini che riceveranno un reddito sufficientemente a non provocare disordini sociali e il cui unico compito sarà sostenere i consumi e produrre dati personali. Probabilmente il primo gruppo avrà una formazione prettamente tecnica, mentre il secondo potrà dedicarsi ad altri campi del sapere come le discipline umanistiche, i servizi sociali, l’arte e la religione.
Questo, unito alla “deterritorializzazione” delle attività produttive, ci porterà a ripensare anche al nostro concetto di cittadinanza. Diventeremo a tutti gli effetti cittadini “globali” in un territorio dove gli Stati serviranno solo a garantire la gestione ordinaria delle infrastrutture e dei sistemi di welfare di base, mentre le multinazionali si occuperanno dello sviluppo strategico attraverso grandi quantità di tecnologia e un po’ di capitale umano altamente specializzato.
Oppure.
Abbiamo immaginato le conseguenze alle quali nel corso dei prossimi dieci anni ci porteranno i cambiamenti già in atto. È opinione di molti che l’umanità stia attraversando una fase altamente caotica in cui le nostre istituzioni sembrano entrate in crisi, innescando in ciascuno di noi un sentimento di smarrimento e precarietà, forse inedito per l’uomo. I sociologi definiscono questa sensazione “anomia”, ovvero percezione di un crollo delle regole che tradizionalmente garantiscono la nostra convivenza. Molti la considerano l’impulso alla base del sorgere e prosperare dei movimenti nazionalisti che si stanno formando in tutto il mondo: visto che non riusciamo a comprendere cosa sta succedendo e dove ci porterà questo mondo complesso, cerchiamo di rifugiarci nelle istituzioni del vecchio mondo “più semplice”. Ovvero nelle Nazioni. Il risultato è che, se da una parte quella che abbiamo immaginato prima è una traiettoria di sviluppo forse plausibile, dall’altra l’esito delle fasi caotiche è per sua natura imprevedibile e può andare tanto nella direzione di nuovi sistemi più complessi come in quella della destrutturazione nei sottosistemi stabili.
Ciò che è certo è che l’esito dipenderà dalla nostra volontà di imparare a governare i cambiamenti in atto, affrontando a viso aperto la sfida del mondo complesso.