Il 9 marzo scorso, a distanza di dieci giorni dalla tragedia di Cutro che ha visto la morte di più di 90 migranti a pochi metri dalle coste calabresi, il governo italiano ha organizzato un cdm sul luogo del naufragio. Una risposta alle pressanti critiche che erano arrivate nei giorni precedenti, quando il governo Meloni veniva accusato di non intervenire con sufficiente forza sul fronte migrazione.
A fronte di ciò il Cdm ha deliberato. L’Italia punirà in modo più severo gli scafisti: le pene per chi guida le barche dei migranti saranno più alte e viene introdotta una nuova fattispecie di reato, che punisce con una pena che va da 20 a 30 anni gli scafisti sulla cui barca qualcuno dovesse morire o rimanere vittima di lesione grave o gravissima.
Molti analisti e commentatori hanno scritto in modo talvolta entusiasta e talvolta critico delle decisioni del governo Meloni. Tuttavia ancora una volta nel dibattito sembra mancare un approccio complesso: governo, sostenitori, critici, sono tutti alla ricerca di un’unica soluzione in grado di risolvere all’improvviso i problemi e salvare vite. Ma in un mondo interconnesso e in rapida evoluzione non esistono quasi mai soluzione uniche e sempreverdi.
La migrazione è una necessità dell’uomo, che fin da quando è primitivo tende a spostarsi alla ricerca di un ambiente più favorevole. Se millenni fa le migrazioni erano legate alla ricerca di terre più fertili o più comode per il commercio, oggi sono soprattutto le dinamiche lavorative ad ambientali a fare da sprone alla migrazione. Gli esperti li chiamano “push factors”, cioè fattori di spinta, e tra questi oggi vi sono soprattutto povertà e conflitti generati dal cambiamento climatico e dall’approvvigionamento delle risorse fondamentali.
Ma dall’altro lato, gli Stati meta di migrazione hanno costruito barriere (talvolta fisiche, talvolta normative) per proteggere i propri territori e le proprie economie. L’idea è che l’esistenza di barriere alte impedisca o inibisca la partenza. Ma questo meccanismo non ha funzionato: oggi possiamo affermare che la migrazione è rimasta, e l’andamento dei suoi picchi e dei suoi flessi è stata determinata dall’oscillare dei push factor, non delle barriere all’ingresso. Ad esempio i picchi di arrivi registrati in Italia negli ultimi 25 anni corrispondono a condizioni di instabilità politiche di specifiche aree: l’acuirsi delle guerre balcaniche alla fine degli Anni Novanta, le primavere arabe a partire dal 2011, la prima guerra civile siriana nel 2013 e la seconda guerra civile in Libia nel 2014.
Un’analisi del genere serve per capire che se veramente vogliamo fermare la migrazione e aiutare chi vuole lasciare la propria terra (se non per puro senso umanitario, anche solo “cinicamente” per evitare che venga qui), evidentemente dobbiamo intervenire su altri ambiti. Penso ad esempio allo sviluppo infrastrutturale e digitale in Paesi che sono al momento sprovvisti o quasi di una decente rete internet, ma anche a interventi di natura ambientale e commerciale che possano aiutare l’impresa, il mercato ma anche – semplicemente – l’accesso all’acqua potabile.
Del resto, uno dei motivi principali eppure spesso dimenticato della povertà di agricoltori e allevatori dei paesi africani è la Pac, la politica agricola comunitaria implementata negli anni dall’Unione Europea per creare una barriera all’ingresso del mercato ortofrutticolo europeo. E un approccio complesso che voglia risolvere veramente il problema non può prescindere da misure ambientali e commerciali per tamponare il fenomeno della migrazione.
Credo fermamente che oggi la complessità ci dia gli strumenti per risolvere alcune delle sfide epocali cui si trova davanti l’umanità. Parlo di ambiente, di migrazione, di diritti e tecnologia, che però non possiamo affrontare separatamente come appartenessero a mondi distaccati, ma invece analizzare nel loro insieme e nelle loro interconnessioni. Per questo motivo dobbiamo essere consapevoli che limitarsi a innalzare le pene per chi guida le barche, per quanto questa attività possa apparirci odiosa, non basta. Le persone infatti continueranno a partire fintanto che restare significherà soffrire. E continueranno a morire finché le barriere d’ingresso saranno così alte. Per questo bisogna capire che la complessità non è una questione intellettuale, quanto – letteralmente – di sopravvivenza.