In queste settimane abbiamo assistito alla spaccatura clamorosa nella storia del M5s. Il movimento, dopo varie scissioni e fratture interne, ora è arrivato a perdere anche Luigi Di Maio, pupillo del movimento e fedelissimo fin dalla prima ora, oltre che importante esponente di governo.
Non è solo un episodio. Il fenomeno alla base del M5s ha radici profonde che attraversano Francia, Inghilterra, fino oltreoceano in Brasile e Stati Uniti, mappando così un fenomeno che si è incarnato in figure di spicco come Marine Le Pen, Boris Johnson ma anche Bolsonaro e Trump. Tutti, partendo da un nutrito consenso popolare, sono poi finiti con lo sgonfiarsi sotto i colpi dei referendum, degli scandali, dei colpi di stato o più semplicemente delle elezioni democratiche.
Il populismo è una soluzione semplice e che si vanta di essere semplice. Tradizionalmente, il leader populista raccoglie consenso prendendo una questione complessa, mostrandone alcuni aspetti apparentemente intuitivi ma in realtà semplicistici, insultando i “professoroni”, la “casta” vera o presunta che contribuisce a un dibattito complesso su quel tema specifico e rivendicando “il diritto dell’uomo della strada” di prendere decisioni.
Non è un fenomeno nuovo, ma oggi viviamo in un mondo più complesso dove le dinamiche di internet, dei social network, dei modelli di business della maggior parte delle testate giornalistiche hanno dato nuova linfa vitale a questo tipo di atteggiamento.
Durante la Prima Repubblica votare era cosa abbastanza semplice. C’erano partiti di destra o di sinistra e poi un grande partito dominante di matrice democratica e cristiana. Oggi il quadro politico risulta più fluido e negli ultimi vent’anni ha visto il liquefarsi delle coalizioni a vantaggio di maggioranze definite in Parlamento secondo le contingenze del momento.
Ma se vivere in un mondo complesso, incerto e volatile, è stato negli anni terreno fertile per la diffusione dei populismi, quale può essere un’offerta politica alternativa e come mai fa tanta fatica a emergere?
Per prima cosa, in un mondo complesso dovremmo anche rendere più complesse le categorie che utilizziamo per distinguere i partiti politici. Pensiamo alla politica in un’unica dimensione (destra e sinistra), ma forse dovremmo aggiungerne un’altra (alto e basso). Una politica “dell’alto” promuove una cultura della complessità basata sulla globalizzazione e sui principi di interconnessione e interdipendenza ormai evidentissimi nella nostra società. Le proposte politiche possono andare contro gli interessi del breve termine (pensiamo alle misure sulla questione climatica, che impongono una profonda revisione degli stili di vita di tutti noi), e per essere condivise richiedono anche un impegno maggiore (attenzione, approfondimento, tempo) da parte di chi le riceve. In questo genere di offerte politiche non soltanto è più difficile sfruttare i nostri bias emotivi per creare consenso, ma spesso questi bias costituiscono proprio il principale ostacolo da superare.
Al contrario, ben al di là del loro essere conservatori o progressisti, i movimenti populisti tendono a offrire soluzioni locali anche a problemi globali, ovvero basate soltanto sugli interessi degli stakeholder più vicini oppure che prendono in considerazione soltanto i presunti effetti a breve termine, dando poco o nessun peso a quelli a lungo termine. Un’offerta politica “del basso” è più semplice e che proprio per questo risulta più efficace in periodi di confusione: semplificando artificiosamente la lettura del mondo esterno lo rende più facilmente interpretabile, fornendo così quella sensazione di controllo su di esso di cui abbiamo bisogno.
Se da una parte la sempre maggiore emergenza di fenomeni globali (il cambiamento climatico, le pandemie, le guerre, i flussi migratori) rende difficile non fare i conti con essi, credo che fino a quando la classe politica non troverà il modo di formulare in maniera efficace un’offerta alternativa, ci sarà sempre uno spazio enorme da occupare. Credo pure che, al momento, siamo ben distanti dall’avere le condizioni (materiali, sociali e culturali) necessarie.
Forse il progressivo sgretolarsi del consenso di molti leader – o della compagine grillina come nel caso di Di Maio – potrebbe semplicemente essere il naturale movimento delle maree populiste, che pagano la loro politica “dal basso” con cali di consenso rapidi quanto le loro ascese. Un movimento che può creare le condizioni favorevoli per innescare un cambiamento, ma che non è il cambiamento stesso.