Per quanto le nuove piattaforme tendano sempre più a scoraggiare la cosa, uno degli aspetti più interessanti dei social network è la possibilità di interagire con le persone che seguono i tuoi contenuti, e proprio in uno scambio di domande e risposte su Instagram l’altro giorno mi è stata fatta una domanda molto interessante: possiamo dire che la nuova generazione di AI ha finalmente superato il test di Turing? Oggi voglio riprendere la risposta che (in breve) ho dato e provare insieme a spingerci un po’ più in là.
Per quanto le nuove piattaforme tendano sempre più a scoraggiare la cosa, uno degli aspetti più interessanti dei social network è la possibilità di interagire con le persone che seguono i tuoi contenuti, e proprio in uno scambio di domande e risposte su Instagram l’altro giorno mi è stata fatta una domanda molto interessante: possiamo dire che la nuova generazione di AI ha finalmente superato il test di Turing? Oggi voglio riprendere la risposta che (in breve) ho dato e provare insieme a spingerci un po’ più in là.
Il test di Turing, così chiamato dal nome del suo creatore, il matematico britannico Alan Turing che lo ipotizzò nel suo saggio del 1950 “Computing Machinery and Intelligence”, è un criterio di intelligenza artificiale che ha avuto un impatto fondamentale nella sua disciplina. Nell’articolo, Turing si pone un quesito fondamentale: le macchine possono pensare? Subito dopo, però, sostituisce questa domanda con un’altra che risulta più agevole da trattare: le macchine possono comportarsi in modo tale da sembrare intelligenti? Questa riformulazione della domanda porta alla concezione del famoso “gioco dell’imitazione”, noto appunto come test di Turing.
Nel gioco, un giudice umano interagisce attraverso una chat di testo con due interlocutori: un altro essere umano e un computer. Il compito del giudice è quello di determinare quale dei due interlocutori è la macchina. Se il giudice non è in grado di distinguere in modo affidabile l’essere umano dalla macchina, si dice che la macchina ha “superato” il test di Turing. In altre parole, l’AI è considerata “intelligente” se riesce a simulare il comportamento umano in modo così convincente da risultare indistinguibile da un vero essere umano.
Questo test, nella sua semplicità, ha innescato decenni di dibattito e ricerca. Ha dato una misura pratica dell’intelligenza artificiale e ha sollevato domande fondamentali sul rapporto tra l’uomo e la macchina, tra la natura e l’artificialità, tra il pensiero e la sua simulazione. È un punto di partenza per riflettere non solo su cosa le macchine possono fare, ma anche su come noi, esseri umani, possiamo percepire e interagire con questi sofisticati sistemi di intelligenza artificiale.
Il test, come Turing stesso ha suggerito, misura la capacità di un sistema di imitare il comportamento umano, non la sua capacità di “pensare” nel senso umano del termine. Un esempio di tale critica è l’esperimento mentale del filosofo John Searle, noto come “la stanza cinese”. In questo esperimento, Searle immagina una persona in una stanza che riceve messaggi in cinese, una lingua che non conosce. Tuttavia, la persona ha un manuale di istruzioni che gli dice come rispondere ai messaggi. Seguendo il manuale, l’individuo può inviare risposte appropriate senza capire una parola di ciò che sta facendo. Searle sostiene che un computer che supera il test di Turing è come la persona nella stanza cinese: può sembrare che capisca, ma in realtà non ha alcuna comprensione di ciò che sta facendo.
Come abbiamo ormai tutti avuto modo di provare di persona, ChatGPT di OpenAI può generare risposte coerenti e pertinenti a una vasta gamma di input degli utenti e – benché non sia esente da critiche e limitazioni – ha dimostrato come le moderne AI possano creare interazioni che possono sembrare sorprendentemente umane. Quindi la risposta in breve è: sì, a mio avviso possiamo dire che le nuove AI hanno finalmente superato il test di Turing. Ma con una precisazione.
La premessa di base del test di Turing è che se un essere umano non riesce a distinguere tra le risposte di un computer e quelle di un altro essere umano, allora il computer può essere considerato “intelligente”. Da quando il test è stato formulato ci siamo focalizzati sempre sul computer, perdendo così di vista l’altro protagonista del test: l’essere umano che lo effettua! Se ci pensiamo bene, ciò che veramente stiamo testando infatti non è tanto la capacità della macchina di dare risposte, quanto quella dell’essere umano di distinguerle. Seguendo questo ragionamento, mi verrebbe da riformulare la domanda fatta su Instagram in questo modo: con le moderne AI, noi esseri umani saremmo in grado di passare il test di Turing?
Nel dibattito in corso su questo tema, ma anche vedendo i recenti sviluppi normativi a livello europeo, una delle principali preoccupazioni è che le AI siano progettate per “autodenunciarsi” quando generano contenuti sensibili, preoccupazione questa che è stata già recepita da ChatGPT nei suoi ultimi aggiornamenti. Credo che se siamo già arrivati al punto di dover costringere le AI a specificare nei contenuti che generano il fatto che sono prodotti da una macchina, allora forse abbiamo già risposto a questa domanda.
Voglio concludere poi con una critica più profonda. Il test di Turing si basa sull’idea che l’intelligenza può essere misurata semplicemente osservando il comportamento. Ma l’intelligenza non è solo una questione di comportamento, è anche una questione di esperienza, di consapevolezza, di comprensione. È legata alla nostra identità come esseri senzienti e consapevoli. Questo ci porta a un punto fondamentale. Forse, piuttosto che cercare di costruire macchine che “imitano” l’intelligenza umana, dovremmo cercare di capire meglio cosa significa veramente essere intelligenti. Dovremmo riconoscere la ricchezza e la profondità dell’intelligenza umana, e apprezzare la nostra capacità unica di comprendere, di immaginare, di sognare.