Da alcune settimane giornali, esperti e semplici appassionati parlano assiduamente di ChatGPT, un sistema di scrittura generativa creato dall’azienda OpenAI che utilizza l’intelligenza artificiale per creare dei testi partendo da qualsiasi istruzione (detta prompt).
Lo si può per esempio interrogare chiedendogli di scrivere per noi una piccola riflessione su un certo tema, un post per i nostri social, degli spunti per un libro oppure magari per rispondere a delle domande che ci vengono poste. Per farlo ChatGPT genera un testo “originale” (utilizzo le parentesi perché la questione è controversa e offre molti spunti di riflessione, se volete approfondire questo aspetto ho scritto diversi post sui miei profili social) utilizzando l’enorme base dati sul quale è stato addestrato e che gli consente di scrivere in pochi secondi un testo spesso di un livello niente male.
Tra le tante applicazioni ce ne sono alcune che vengono subito in mente, soprattutto se come me copiavate le versioni di greco prima di entrare a scuola. ChatGPT si può infatti usare per scrivere semplici articoli di giornale, tesine universitarie o magari per rispondere per iscritto alle domande di un esame o di una verifica scolastica. Insomma, come sempre le nuove tecnologie mettono in crisi i nostri sistemi sociali, in questo caso quelli scolastici. Sfida che – a dire il vero – era già stata lanciata dall’avvento di Google e prima ancora dall’avvento delle enciclopedie digitali.
Molti di voi senz’altro ricorderanno le prime enciclopedie su CD-ROM – molti altri ahimé no! – tra le quali le più famose erano la Gedea e la Omnia della DeAgostini. Ho un ricordo molto vivido di quando queste enciclopedie uscirono sul mercato e, da bravo nerd, un Natale ne chiesi una in regalo ai miei genitori. Ero il primo in classe ad averne una, considerando che all’epoca si e no un paio dei miei compagni oltre me avevano un computer a casa. Inutile dire che da quel momento le mie tesine diventarono improvvisamente molto più ricche e i miei voti aumentarono di conseguenza, almeno fino a quando la maestra non scoprì quali prodigi aveva reso possibili la tecnologia!
Potremmo fare un lungo discorso sul tema della cultura e sull’essere acculturati, che come diceva Umberto Eco non è sapere tutto ma sapere dove poter trovare tutto. Già ai tempi di Google si discusse molto di ignoranza razionale, ovvero quel fenomeno che si verifica quando il costo di informarsi su un argomento eccede il potenziale beneficio che tale conoscenza fornirebbe. Che senso ha passare anni sui banchi a imparare a memoria nozioni che potremmo all’occorrenza recuperare in pochi secondi? Ovviamente un senso ce l’ha, ma per preservarlo gli insegnanti hanno dovuto dall’oggi al domani rivedere improvvisamente i propri metodi.
È lo stesso discorso che viene fatto ciclicamente a proposito dell’uso dei cellulari in classe, e che oggi si inizia a fare anche a proposito di ChatGPT: da una parte sono subito arrivate le prime notizie di scuole e università in giro per il mondo che hanno bandito lo strumento, dall’altra ci sono scuole che iniziano a sperimentare modi in cui introdurlo nella didattica. Come la mia maestra alle elementari ha ben presto imparato, vietare l’utilizzo delle tecnologie è la scelta più facile, ma che nel migliore dei casi produce qualche effetto solo nel breve termine.
Nelle scuole italiane l’informatica ancora oggi è spesso una materia facoltativa, e comunque prevede una formazione tecnica ma non culturale. Prevede l’utilizzo di strumenti dei quali però non si incoraggia la comprensione più profonda e il loro inserimento nella nostra società. Così come “imparare a utilizzare un social network” vuol dire molto più che inviare una richiesta di amicizia o aggiornare il proprio status, allo stesso modo strumenti come ChatGPT richiedono una nuova capacità immaginativa e di comprensione.
Per fare alcuni esempi, ChatGPT potrebbe essere utilizzato come spunto di partenza per poi sviluppare in maniera critica il testo che ha prodotto, oppure facendo il processo inverso e trovare fonti che confermino (o smentiscano) ciò che ChatGPT dice. Insomma, credo ci siano ampi spazi per pensare come le scuole potrebbero accogliere ChatGPT come un aiuto all’insegnamento, in grado di liberare la creatività degli studenti, piuttosto che vederlo semplicemente come una minaccia.
C’è però un’ultima riflessione che vorrei fare. Mentre in questi primi mesi il dibattito sull’utilizzo di ChatGPT nelle scuole è stato tutto incentrato sugli studenti, un insegnante di scuola superiore ha risposto a una mia newsletter sull’argomento raccontandomi di aver usato ChatGPT per valutare alcuni compiti dei suoi studenti, ottenendo in un paio di secondi un feedback più dettagliato e utile di quanto avrebbe fatto lui. Anche con questo dovremo imparare presto a fare i conti.