Giovedì scorso alla Casa del Cinema di Roma abbiamo presentato “Reputazione a rischio”, un documentario prodotto da Zwan e girato dal mio socio Davide Ippolito che sarà disponibile su Business+, la prima piattaforma dedicata all’intrattenimento business che lanceremo nei prossimi mesi. Il documentario parla di come sia facile oggi costruirsi una “falsa reputazione” online e dei rischi che ci sono per i nostri sistemi sociali (e in particolare quelli produttivi).
Una delle storie presenti all’interno del documentario è quella del clamore suscitato dal matrimonio in Italia del cantante del gruppo statunitense Koodja and the SOS, che è finito con il rilasciare interviste per magazine, radio e TV… peccato che nonostante la sua storia fosse ben documentata online, fosse in gran parte inventata! Come ha detto Davide a Wired, su internet non ci si può fidare fino in fondo di nessuno.
Agli albori di internet si diceva che la rete avrebbe reso il mondo più democratico. Internet ci offriva la possibilità di chattare con persone lontanissime e di scambiare idee, nonché un mercato sempre più concorrenziale. Ma come dice Davide nel documentario, non avevamo considerato che nel digitale vale il principio “the winner takes it all”. E quindi addio concorrenza.
Grazie alla montagna di dati che gli regaliamo, i social hanno imparato a conoscerci molto bene. Capiscono quali cibi preferiamo, dove viviamo, se siamo credenti oppure no. Conoscono anche le nostre abitudini sessuali, la nostra condizione familiare, le nostre idee politiche e le nostre passioni: sport, letteratura, viaggi, orologi e chi più ne ha più ne metta.
Ormai lo sappiamo bene, come sappiamo bene a cosa serve raccogliere tutte queste informazioni: a mostrarci esattamente ciò che vogliamo vedere (in particolare annunci pubblicitari).
Ma cosa succede quando questa stessa logica viene applicata non a dei banner ma alle notizie che leggiamo? Cosa succede quando tutte le informazioni che riceviamo nei nostri feed sembrano fatte su misura per noi, quando tutte le opinioni confermano le nostre idee?
Questo fenomeno si chiama camera dell’eco, ed è il meccanismo per cui le nostre idee e le nostre credenze su internet si amplificano e si riverberano, uscendone rafforzate. Succede ad esempio a chi ha idee politiche abbastanza estreme e stando su internet finisce col radicalizzarsi. Ma succede anche a chi ascolta un certo genere di musica e finisce col sentire solo album tutti uguali, o a chi si ritrova nell’homepage di Amazon soltanto libri sullo stesso argomento.
In uno studio condotto da ricercatori italiani è stato dimostrato che le camere dell’eco nei social rafforzano idee anche scientificamente sbagliate, illogiche o addirittura complottiste su temi molto sensibili, tra cui l’aborto, il controllo sulle armi e i vaccini.
Sfruttando i dati che noi stessi offriamo e algoritmi potentissimi e oscuri, la camera dell’eco ci rende vittime delle nostre stesse idee preconcette. E’ così che il sogno di usare internet per aprirsi al dialogo globale è morto: oggi dialoghiamo solo all’interno di bolle in cui tutti la pensano sempre allo stesso modo.
In un passaggio del documentario provo a spiegare che oggi se si vuole cambiare il risultato di un’elezione conviene intervenire su una piccola nicchia di elettori indecisi anziché sulla comunicazione di massa. È così perché oggi le piattaforme ci conoscono benissimo e dunque consentono un intervento con messaggi mirati sui diversi elettori, i quali possono effettivamente spostarsi in modo veloce da una barricata all’altra soprattutto se sono indecisi.
Negli anni abbiamo barattato la nostra privacy coi servizi gratis. Abbiamo l’impressione di poter guardare video, ascoltare musica, avere mappe sempre a disposizione e usare app che ci contano i passi e ci dicono il titolo di una canzone che ci piace, e tutto gratis. Ma non è gratis. Semplicemente, si paga con la moneta dei nostri dati.
Tutto avviene col nostro consenso. Ma davvero siamo liberi? Davvero siamo informati? Davvero siamo consapevoli di quanto valgono le informazioni che cediamo?