Nella scena finale del film A beautiful mind di Ron Howard, il protagonista John Nash a margine di una delle sue lezioni all’università viene avvicinato da un uomo che gli comunica l’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia per il suo contributo dato alla teoria dei giochi. Nash, ormai schizofrenico da diverse decine di anni, ferma uno dei suoi studenti per chiedergli se vedeva la persona davanti a lui: è da sempre la mia scena preferita del film, perché mostra come Nash – dopo aver ricevuto e fatta propria la diagnosi di schizofrenia – impara a convivere con la malattia riacquisendo una buona qualità della vita.
John Nash è stato un genio indiscusso del XX secolo, un uomo brillante che è riuscito a lasciare il suo contributo nel mondo nonostante la malattia, ma con enormi difficoltà. Vedendo quel film viene spontaneo domandarsi non solo quanto ancora avrebbe potuto dare John Nash con un miglior supporto (e John Nash in quegli anni era comunque un privilegiato che poteva contare su molte risorse personali, economiche e sociali), ma anche quanti John Nash ci perdiamo ogni giorno perché non ricevono una adeguata diagnosi.
La presa di coscienza è una svolta perché apre uno scenario più complesso. La dicotomia sano/malato viene superata perché si riconosce che la malattia non ti definisce in toto. Nash non è solo malato: è anche malato, ma allo stesso tempo è anche un professionista affermato, un compagno, un uomo con una vita sociale. Come tutti noi, John è un individuo con un’identità complessa, la cui malattia interagisce con la sua professione così come la sua professione interagisce con la sua malattia, aiutandolo a sviluppare le proprie strategie di convivenza per gestirla. In questo senso ottenere una diagnosi è fondamentale per poter definire il problema e attivare tutte le risorse (personali e sociali) possibili per circoscrivere il più possibile l’area di interferenza che quest’ultimo ha con gli altri aspetti della nostra vita – che restano veri e che vanno il più possibile preservati.
Dal punto di vista della prevenzione, ottenere una diagnosi corretta e tempestiva consente di intervenire sul problema prima che questo si vada ad aggravare e cronicizzare, potendo così prospettare percorsi di cura meno gravosi. Se pensiamo ad esempio che l’età di esordio della schizofrenia è compresa tipicamente dall’adolescenza fino a metà dei 30, con un picco intorno ai 20 anni, capiamo immediatamente come una maggiore familiarità e possibilità di accesso ai servizi psicologici possano segnare in maniera decisiva le traiettorie evolutive di queste vite.
C’è poi anche un motivo pratico: avere una diagnosi significa poter accedere alle cure previste dal SSN, che in assenza di diagnosi non sarebbero accessibili. Nonostante questo, ottenere una diagnosi in moltissimi casi non è facile. In un recente convegno sulle malattie terminali tenutosi a Roma è emerso che in Italia circa 100mila persone hanno una patologia senza diagnosi. La prima diagnosi inoltre è errata in un caso su tre e mediamente arriva con quasi 5 anni di ritardo. Tutto ciò succede per un insieme di fattori: scarsa conoscenza della comunità scientifica di alcuni disturbi, iperspecializzazione dei medici e gap tecnologico sono alcuni di essi.
Un caso emblematico è quello dell’endometriosi, che nelle donne può provocare dolore pelvico, mestruazioni dolorose e dolore durante i rapporti sessuali. Fino a pochissimi anni fa non veniva mai diagnosticata e spesso era derubricata a “semplice dolore”, complice anche una popolazione medica storicamente maschile che negli anni ha prodotto un deficit strutturale nella nostra capacità di comprendere la fisiologia femminile che solo negli ultimi anni abbiamo cominciato a recuperare. L’endometriosi affligge più del 10% delle donne italiane, ma ancora oggi la diagnosi è tardiva e spesso accidentale. Pochi lo sanno, ma sembra che anche Marylin Monroe ne soffrisse e probabilmente questo dolore cronico ebbe un ruolo decisivo nell’abuso di farmaci che ne determinò poi la morte.
Un altro caso emblematico è quello dell’acufene, una condizione che fa percepire un suono acuto nell’orecchio dei pazienti affetti dal disturbo, di cui ad esempio soffre il cantante Caparezza che proprio ai suoi effetti invalidanti ha dedicato di recente una canzone. Anche in questo caso, essendo un fenomeno soggettivo che al momento non siamo in grado di misurare oggettivamente con test diagnostici, non esiste né una diagnosi ufficiale né percorsi di cura.
Una diagnosi è quindi molto più che una “etichetta” da mettere sopra un individuo, il quale di certo non va ridotto al suo malessere. Una diagnosi non serve solo a ricevere cure adeguate, ma è spesso essa stessa la prima forma di intervento perché una persona che soffre ha bisogno di strumenti che la aiutino a “pensare” la propria condizione, per poterla capire e imparare a padroneggiarla. Per dirla con Alfred Korzybski, “la mappa non è il territorio”, così come la diagnosi non è il paziente.
La malattia però diventa una parte di noi e negare una diagnosi significa in sostanza negare le giuste cure, la giusta gestione psicologica del malessere e addirittura il diritto ad autodefinirsi.