Valerio Eletti, intellettuale poliedrico, ci porta in un viaggio dentro al mondo complesso, provando a unire i puntini dei tanti temi affrontati sinora. E ci ricorda che vivere in tempi di grandi sfide è un privilegio raro.
Joe Casini: “Buona domenica e benvenuti a questo gran finale di stagione per questa prima stagione del del podcast di mondo complesso oggi chiaramente finale di stagione, quindi abbiamo pensato a una puntata molto particolare è che abbasso un po’ a tirare le somme su quelli che sono stati i contributi, insomma dai vari ospiti, per chiudere così in maniera è uno sguardo molto ampio sul tema della complessità. E per farlo, ovviamente, avevamo bisogno di un’ospite all’altezza dell’ ingrato compito. E fortunatamente abbiamo trovato con Valerio Eletti. Quindi la prima cosa cosa è benvenuto, Valerio!”
Valerio Eletti: “Grazie, molto gentile.”
Joe Casini: “Valerio, oltre a essere un illustratore, giornalista, saggista, è presidente del Complexity Education Project, oltre ad essere membro del comitato organizzativo del Festival della Complessità. Quindi oggi assolutamente non potevamo avere un ospite più adatto per provare a tirare le somme di questa prima stagione del podcast. Valerio io comincerei subito perché poi, appunto, di spunti ne ne ne abbiamo molti. Ho provato a sintetizzare gli argomenti che gli ospiti hanno portato, le tematiche affrontate, ma soprattutto il modo in cui poi ciascun ospite ha sviscerato questi grandi temi. Abbiamo cominciato il podcast avendo come ospite Mauro Ceruti e abbiamo proprio aperto, prendendo in prestito uno dei suoi spunti forse più famosi ed efficaci: la complessità come un nuovo paio di lenti attraverso il quale vedere il mondo. Andarlo a vedere attraverso la lente della complessità vuol dire in qualche modo mettere in discussione quello che è stato un po’ l’approccio culturale che ha caratterizzato gli ultimi secoli ma che forse oggi inizia a mostrare anche i suoi limiti. Penso ad esempio il contributo che ha portato Giulio Xhaet quando abbiamo parlato di formazione, quando ha sottolineato come la cultura del fallimento – che spesso viene portata come un elemento che può essere promotore di crescita – in realtà poi spesso fa sì che si ricade in una logica della semplicità per cui o hai fallito o non hai fallito. In qualche modo abbiamo parlato di questo anche con Le Sex en Rose, parlando di sessualità e di come questa si possa vivere in una logica più stringente e tipicamente normata e binaria, oppure in un concetto di sessualità molto più articolato e libero. E questo in qualche volta, anche parlando con Azzurra Rinaldi e Isabella Borrelli, quando abbiamo parlato di diritti e privilegi di una parte della società e discapito di un’altra, per cui ancora una volta in una logica binaria c’è un gruppo di individui pienamente riconosciuto e uno no. Quindi la domanda che ti volevo fare è tu come vedi oggi il tema della cultura della complessità?”
Valerio Eletti: Diciamo che la complessità è difficile da digerire, però tutto quanto è biologico o sociale, tutto quanto è vivo e sociale, non può che essere complesso. Però in genere quando si parla di complessità si viene fraintesi, perché chi ascolta, sentendo la parola “complessità”, pensa a “complicazioni”. Sono cose completamente diverse. Complesso è un sistema reticolare in cui ci sono dei feedback molto forti tra un’azione e un’altra , in cui piccole cause possono creare degli enormi effetti, in cui appunto si perde la prevedibilità e in cui emerge l’auto-organizzazione: tant’è vero che tutto quanto è vivo e sociale può essere visto come un sistema complesso, adattativo. Questa è forse la parola chiave che ci fa distinguere fra complicazione e complessità. C’è una bellissima frase che viene attribuita a diversi autori: per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, che è sbagliata! In un mondo sempre più connesso, sempre più complesso, emergono dei fenomeni nuovi che prima non erano prevedibili e soprattutto non esistono delle soluzioni semplici. Pensiamo al Covid e al perché si è diffuso così velocemente: perché abbiamo per esempio tutte le reti degli aerei che prima non c’ erano. Se andiamo a vedere quante reti abbiamo costruito nell’ultimo secolo fa paura. Vabbè, la rete stradale risale all’antica Roma, però la rete ferroviaria, quella elettrica ma anche quella idraulica, sono tutte reti che abbiamo sviluppato negli ultimi centocinquant’anni. E poi la rete radiofonica, telefonica, televisiva e da ultimo quella di Internet: abbiamo visto questo infittirsi delle reti, questa azione sempre meno centralizzata, sempre più diffusa. È anche il motivo per cui ci fa un po’ paura, ma non possiamo fare altro per cercare di capire come muoverci in questo mondo nuovo.”
Joe Casini: “Hai introdotto due temi sul quale mi volevo quando proprio soffermare: sia sulla natura evolutiva e adattiva dei sistemi complessi, sia sul ruolo della tecnologia. Hai nominato tante tecnologie, dalle reti stradali a internet, un altro tema che è emerso poi spesso nelle chiacchierate che abbiamo fatto durante quest’anno è la capacità proprio della tecnologia di creare una sorta di «tensione evolutiva», cioè un bisogno di adattamento nelle società. Per esempio, ne abbiamo parlato con Guido Scorza del Garante della privacy, parlando appunto del tema della privacy e di come è cambiato da quando appunto c’è stato l’esplosione di internet. Abbiamo parlato per esempio anche di come la tecnologia non possa essere neutrale e sono emersi spesso anche aspetti ambivalenti, per esempio sul tema del dell’intelligenza artificiale. Mi ricordo un momento della chiacchierata con Andrea Pescino in cui lui sottolineava il fatto che l’intelligenza artificiale potrebbe darci la possibilità di superare i nostri bias correggendo via via l’addestramento. Isabella Borrelli sottolineava invece come proprio il fatto che l’addestramento venga fatto su ciò che al momento noi sappiamo nel modo in cui lo vediamo, non faccia che alimentare i nostri bias. Con Luca Romano abbiamo parlato del tema del nucleare, di come appunto i nostri bias sull’argomento ci portino ad avere dei pregiudizi su questa tecnologia anche oggi che siamo nell’epoca dell’emergenza climatica e magari l’energia nucleare potrebbe essere una parte della soluzione al problema. E questi aspetti ambivalenti sono emersi anche in qualche modo parlando con Amy Fall e con Alberto Puliafito, quando abbiamo parlato di come sia il giornalismo che il settore bancario siano cambiati proprio spinti in funzione della tecnologia, e di come spesso questi cambiamenti tecnologici mettano in atto anche dei cambiamenti nella società. Quindi si innescano dinamiche con dei tempi e delle velocità sempre più rapide, laddove magari il nostro pensiero su alcune cose ha bisogno di tempi più lunghi. In questo senso, tu come vedi la situazione?”
Valerio Eletti: “Secondo me hai centrato il punto. Magari parlo di diversi aspetti delle conseguenze di questo sviluppo tecnologico, però poi voglio focalizzare un tema che è quello dei big data. Le nuove tecnologie, insieme alle vecchie tecnologie, stanno creando grandi quantità di dati. Ma attenzione, noi siamo nell’epoca della super abbondanza anche per i beni che abbiamo. Abbiamo tutti i vestiti che vogliamo, abbiamo da mangiare tutto quello che vogliamo: è Big tutto, non è soltanto Big Data! Quindi non sono solo le tecnologie digitali, ma sono tutte le tecnologie che ci portano ad avere troppo di tutto. Parlo del mondo occidentale, in ogni caso il punto chiave secondo me è questo: tutti noi, qualunque età abbiamo – a parte i giovanissimi – siamo cresciuti in epoca in cui aveva valore la scarsità di beni. I beni erano scarsi e se per esempio dovevi scrivere un articolo, il problema era di andarsi a trovare l’articolo precedente a cui fa riferimento, eccetera. Noi continuiamo a lavorare con questa stessa mentalità, ma non ci rendiamo conto che non abbiamo più scarsità: abbiamo abbondanza, anzi abbiamo troppa abbondanza. Pensiamo ad esempio se devo scrivere un articolo sulla complessità, sulle tecnologie eccetera. A parte che ci sono probabilmente diecimila articoli che io nella mia vita non potrò mai leggere, ma mentre scrivo ne escono altri cento, duecento nuovi. Le nostre azioni stanno diventando casuali, perché noi non riusciamo a controllare quello che ci sta succedendo intorno. Non è neanche vero, perché in qualche modo riusciamo a controllarlo: ma come riusciamo a farlo? Pensiamo a Google. Noi andiamo sul motore di ricerca e andiamo a vedere le cose che sono più pregnanti per noi, più importanti. Attenzione però, non siamo noi che scegliamo chi decide che cosa è interessante per noi, ma è un algoritmo con i suoi bias. Quindi noi dobbiamo riuscire a stare in equilibrio tra le minacce e le enormi opportunità che ci danno queste nuove tecnologie, coniugate sul tema della conoscenza. Una ultimissima chiosa velocissima: le tecnologie sono anche generatrici non solo di complessità positiva, di adattabilità eccetera, ma anche di complicazioni. Io vedo all’università cose ridicole, perché ci sono leggi sulla trasparenza che vanno a scontrarsi con le leggi sulla privacy, per cui può uscire un concorso in cui non ci sono i nomi dei vincitori per la privacy. Siamo alla follia, in certi casi l’abbiamo sempre vissuta la complessità, ma era gestibile.”
Joe Casini: “Hai toccato un altro tema che è spesso emerso, cioè abbiamo delle possibilità con queste tecnologie incredibili, potenzialmente riusciamo a fare delle cose impensabili. Abbiamo delle potenzialità terribili. Il problema poi diventa in qualche modo culturale, cioè la tecnologia ti crea uno spazio, ti crea anche questa pressione, questa domanda di adattamento che poi però devi andare a colmare per poter effettivamente essere efficace, per rendere queste possibilità effettivamente abilitanti. E devi andare a colmarle con degli interventi diciamo culturali, a vario livello. Per esempio proprio su questo punto mi ricordo ne abbiamo parlato con Luana Valletta e Danilo De Stefano, parlando per esempio del bisogno che abbiamo di diffondere ad esempio la psicologia nelle aziende e nella società in generale. Quindi la possibilità in qualche modo di dare strumenti alle persone per potergli consentire di affrontare tutte queste tensioni e superare i momenti di crisi. Ma ne abbiamo parlato anche a proposito di cultura abilitante con Derrick de Kerckhove, il quale diceva che dobbiamo mettere in discussione il modello del superuomo al comando, tipico ad esempio della Silicon Valley. Sono super uomini che fanno questi enormi miracoli, ma spesso sono superuomini con super problemi! Poi nella società ne abbiamo parlato anche con Donata Columbro per quanto riguarda un utilizzo consapevole dei dati che vuol dire ad esempio far sì che tutti questi dati, che come dicevi anche tu abbiamo in sovrabbondanza, abbiano effettivamente un significato e non generino solo confusione. Quindi da questo punto di vista la domanda che ti volevo fare è se secondo te dobbiamo ripensare la nostra cultura? Ci si sofferma spesso sulle grandi innovazioni tecnologiche, e magari ci soffermiamo poco sulle innovazioni culturali?”
Valerio Eletti: “Eh, tocchi un nervo scoperto per me! Perché il Festival della Complessità è nato proprio su questa istanza qui. Cosa vuol dire vivere in un mondo così complesso? Come se ne esce? Come se ne entra? Anzi, come riusciamo a sopravvivere senza che diventi caos? Perché tra la complessità emerge sempre in equilibrio tra caos e eccesso di ordine. L’eccesso di ordine è morte. In fondo, quando tutto è rigido e non c’è più possibilità di rispondere agli stimoli, non c’è neanche vita. Il caos al contrario è assolutamente imprevedibile, quindi anche lì non c’è vita. Secondo me è importante questa domanda che mi hai fatto sul ruolo che la formazione ha per poter essere efficace in questo ambiente, in questa epoca. In questo panorama dove le cose non possono essere più lineari, non può neanche esserci più un travaso di conoscenze dall’uno all’altro, ma bisogna lavorare con le simulazioni, con la realtà aumentata. Ti parlo di un’esperienza che ho fatto io. Sono stato direttore editoriale per quanto riguardava gli e-learning dell’Enel per diversi anni. Vent’anni fa abbiamo realizzato in pochi anni più di mille e duecento corsi, con la possibilità di poter misurare il follow-up per vedere che cosa rimaneva, come venivano applicate le cose, eccetera. E abbiamo scoperto appunto che ci sono tipologie di conoscenza diverse. Se io devo imparare come si svuota l’olio di un isolante, lo posso fare in maniera lineare. Se però devo lavorare sulle soft skill, la gestione del rischio, la leadership, eccetera e vado con contenuti lineari faccio dei pasticci che non finiscono più, do false verità. La soluzione che abbiamo trovato in questi casi era un sistema di simulazioni. Se tu hai un ragazzo e gli vuoi insegnare come funziona il Sistema Solare, devi avere un algoritmo che ti permette di aggiungere o togliere un pianeta e vedere cosa succede. Puoi sperimentare in prima persona che cosa succede a certe tue azioni. Torniamo a recuperare il sistema più efficace di formazione che abbiamo avuto, quello della nostra prima infanzia. Con le simulazioni si riesce a fare. Il grande limite vent’anni fa era che queste simulazioni le facevamo con sistemi ad albero, dove a seconda della risposta veniva preso una strada invece che un’altra. La grande svolta è stata quando ho incontrato un esperto di reti neurali, che era uno dei pochissimi all’epoca, e abbiamo cominciato invece a lavorare addestrando delle reti a dare dei percorsi probabilistici sulle varie opportunità di di superamento della del problema. Con questo esempio volevo riportare il fatto che io ho visto cose reali, concrete, che funzionavano. E credo che oggettivamente si può affrontare questo mondo complesso solo con strumenti non lineari e complessi a loro volta. Quindi molto lavoro di gruppo, molto free class, molto ascolto, molta umiltà da parte del formatore che diventerà sempre più un facilitatore.”
Joe Casini: “Mentre parlavi di formazione mi è venuto in mente che abbiamo fatto una puntata con Alessandra Benevolo che è HR in Ipsen e che ha portato come esempio la sua esperienza quando è scattato il lockdown e lei nella sua azienda in qualche modo ha dovuto non soltanto gestire gli aspetti organizzativi, ma anche la formazione. Una parte della sua azienda aveva bisogno improvvisamente di skill che magari non aveva. E quindi come hanno organizzato questo? Questo come hanno reagito a questa questa emergenza? Sul tema della formazione abbiamo parlato poi in particolare di educazione anche con Antonella Questa e Antonello Giannelli. Parlando di educazione e di bambini, proprio Antonello sottolineava come noi continuiamo ad applicare un metodo che è un mezzo sostanzialmente ottocentesco, novecentesco. Alcuni sistemi educativi, ad esempio quello islandese, hanno su questo iniziato a sperimentare proprio paradigmi totalmente nuovi. Da noi, invece ci troviamo ancora a portare avanti un modello autoritario che ogni anno che passa entra sempre più in qualche modo in crisi. Quindi la domanda che ti volevo fare prendendo un po’ questi spunti è: da una parte abbiamo la possibilità di attingere e integrare tutte le conoscenze che abbiamo sviluppato, non necessariamente di tipo scientifico, in tutti questi anni ma dall’altra abbiamo sempre meno tempo per farlo! Viviamo in questo sistema che corre sempre più velocemente e questo spesso fa sì che anche le forbici sociali si vanno ad allargare sempre più velocemente, come sottolineava Alessandro Sahebi. Abbiamo bisogno di creare condizioni culturali nella nostra società per far sì che se ci sono innovazioni tecnologiche, larghe fette dei lavoratori nei nostri sistemi produttivi non entrino in crisi. A questo proposito, ad esempio, Marco Bentivogli diceva che la tecnologia deve liberare nel lavoro, non dal lavoro. Queste nuove tecnologie in qualche modo ci danno la possibilità di essere più liberi, più produttivi, più efficaci, più creativi, più motivati negli ambienti lavorativi, se abbiamo gli strumenti culturali per padroneggiarle. Altrimenti, come sottolineava Alessandro Sahebi, tutto questo va ad allargare le forbici sociali creando disuguaglianze che alla fine portano i sistemi sistemi sociali in una fase caotica, rendendoli instabili. E quindi la domanda che ti volevo fare da questo punto di vista è: come senti questa urgenza? Secondo te stiamo andando verso verso il caos?”
Valerio Eletti: “Guarda, io vedo il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Faccio un esempio. La didattica a distanza ha scatenato delle demonizzazioni tremende e reazioni entusiaste. La DAD usata durante il lockdown aveva dei limiti enormi, perché non erano formati i docenti. Veniva semplicemente rifatto in maniera triste la lezione in aula. Non funziona così la formazione a distanza, quando noi lavoriamo con le nuove tecnologie abbiamo la multimedialità, abbiamo l’interazione, abbiamo l’interattività, abbiamo l’ipertestualità. Abbiamo strumenti enormi che non usiamo. È come se uno è un pittore e dicesse: «adesso voglio cominciare a fare lo scultore, e per fare lo scultore prende il marmo e comincia a dipingerlo». Non è quella la scrittura, poi il marmo deve imparare a scalpellarlo, a fare emergere la figura! Ci vuole un grande impegno per rendere meno traumatico il passaggio cui stiamo andando incontro, perché un passaggio ci sarà e sarà grande. Anche perché tutte queste intelligenze artificiali cambieranno profondamente il nostro modo di lavorare, partendo appunto dalla gestione dei big data, per cui noi ci affideremo sempre di più a sistemi che hanno memorizzato e organizzato le conoscenze di milioni di specialisti, anche più bravi di noi. È una sfida meravigliosa. Secondo me avere la fortuna di vivere una fase del genere su milioni di anni di storia umana è un privilegio.”
Joe Casini: “Sono molto contento di chiudere con questo entusiasmo, perché anche questo è un aspetto che abbiamo sottolineato spesso con gli ospiti. Poi quando uno si mette a parlare, magari anche gli esperti, spesso la tecnologia innesca un po’ di timore. Quando parli di intelligenza artificiale e magari sottolinei delle cose sembra sempre che allora o sei tecnofobico o tecno-entusiasta. Invece l’idea è proprio quella di dire che viviamo in un mondo che ci dà moltissime possibilità, se però uno è nelle condizioni di coglierle. Intanto io ti ti ringrazio, perché la puntata di oggi era una puntata – qui ci vuole – davvero complessa perché in qualche modo abbiamo cercato di tirare le somme e interconnettere tutti i contributi che abbiamo avuto durante l’anno. Chiaramente in quanto nostro ospite non puoi evitare quella che è la liturgia di questo podcast e che prevede, in chiusura della puntata, che gli ospiti si lascino tra di loro delle domande. In quanto ultimo ospite della stagione, non avrai la possibilità di lasciarne una all’ospite della prossima puntata perché ancora non sappiamo chi sarà, ma in compenso hai una domanda in sospeso – un po’ come il caffè a Napoli! – che secondo me è una delle domande più belle di questa stagione. Forse mi sbilancio la più bella, e credo sia anche il modo giusto per per chiudere sia la puntata che un po’ questa prima stagione di Mondo Complesso. La domanda che ti ha lasciato Lino Apone è la seguente: si parla tanto di complessità, che è un argomento che interessa moltissimo, e questa è anche un po’ l’esperienza mia non so se anche la tua, quando si parla di complessità c’è curiosità, c’è ascolto, c’è interesse. Poi però Lino giustamente domandava – un po’ come una provocazione, ma neanche troppo – ma allora se è tutto così bello e sembra tutto così ragionevole, perché poi c’è spesso questo rifiuto della complessità? Perché parliamo di complessità ma poi facciamo fatica la complessità a metterla in atto, a esercitarla?”
Valerio Eletti: “Ma per un motivo molto semplice. Noi siamo animali che sono nati in un mondo in cui dovevamo essere velocissimi a collegare causa ed effetto. Quando andavamo a caccia nella giungla, se vedevamo una preda, dovevamo essere veloci, puntare su quello che vedevamo, un predatore. Dovevamo essere veloci a scappare. Noi siamo tutti nati in un mondo di small data. quindi vedere che c’è un modo di leggere la realtà che non ci dà certezze, che è anti-intuitiva, che non ci da’ soluzioni buone o cattive e in maniera chiara, ci mette in crisi, diventa scomoda. È molto più comodo rifugiarsi sulla fede in una linearità di risposta tra causa ed effetto. E credo che questo non sia superabile. Mentre le cose complicate se le semplifichi ci guadagni, un sistema complesso adattativo se tu lo semplifichi gli togli la capacità di adattarsi. Quindi siamo tutti aspiranti stregoni, nel senso che non sappiamo in che territorio siamo ma ci rendiamo conto che siamo in un territorio nuovo, anche se non sappiamo ancora come muoverci. Non sappiamo quali erbe ci sono, se si possono mangiare, quali sono velenose e quali animali ci possono essere utili, eccetera. Per questo, ripeto, è una bella epoca da vivere con tutte le sue incertezze, e questo rientra in una visione complessa.”
Joe Casini: “Da aspirante stregone Valerio ti ringrazio intanto per averci aiutato a concludere alla grande questa prima stagione del podcast di Mondo Complesso!”
Valerio Eletti: “Grazie a voi. Grazie a te. Grazie a chi avrà la pazienza di ascoltarci.”
Joe Casini: “E io, essendo questa l’ultima volta prima stagione, voglio ringraziare ovviamente non soltanto tutte le persone in Zwan che hanno reso possibile la produzione di questo podcast, ma vorrei ringraziare in particolare Gabriele Cruciata che mi ha affiancato in queste venti puntate e senza il quale, insomma, questa prima stagione di Mondo Complesso non sarebbe stata possibile farla. E voglio ovviamente ringraziare tutti gli ascoltatori che in questi mesi hanno mandato feedback, approfondimenti e ci hanno aiutato in qualche modo a prendere le misure strada facendo su questo nuovo progetto. Quindi vi auguro come al solito buona domenica e ci sentiremo presto, tra qualche mese, per la nuova stagione del podcast.”