Con il filosofo e professore Davide Sisto esploriamo il rapporto tra tecnologia morte, memoria, lutto e immortalità, ripercorrendo la storia del lutto in rete, dai primi cimiteri digitali al lutto sui social per arrivare agli ultimi griefbot creati con l’AI.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti in una nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast in cui parliamo della complessità del mondo e dei fenomeni che animano il mondo in cui viviamo e lo facciamo spesso muovendoci in alcune intersezioni, proviamo a prendere degli argomenti, ad accostarli e vedere nel mezzo cosa succede. Oggi è una puntata importante perché proveremo a muoverci sull’intersezione che c’è tra tecnologia e morte e ne parleremo con Davide Sisto, filosofo, professore nonché tanatologo. Benvenuto Davide!”
Davide Sisto: “Grazie per l’invito.”
Joe Casini: “Partirei con la domanda semplice: come mai facciamo così fatica a parlare di morte? In un periodo in cui sui social parliamo tantissimo di qualsiasi cosa.”
Davide Sisto: “è un problema che emerge ed ha luogo dal ‘900 in poi, almeno soprattutto dalla prima metà del ‘900 ci sono stati tutti una serie di fattori che hanno caratterizzato soprattutto una parte della società occidentale perchè poi è sempre difficile generalizzare, facendo sì che la morte diventasse una certa di tabù, un argomento che non fa parte della nostra quotidianità, l’aumento della durata della nostra vita per cui abbiamo avuto la fortuna nel corso del 900 di vedere una vita che tende sempre di più ad allungarsi e di conseguenza ci porta ad affrontare il problema della nostra mortalità e anche della mortalità dei nostri cari sempre più tardi. Si sono sviluppati una serie di processi di natura politica, sociale, culturale basati sulla performatività, sulla forza dell’individuo, sull’idea che siamo fondamentalmente incorruttibili, inscalfibili per cui ricordarci della morte ci porta a ricordare una fragilità esistenziale a cui non vogliamo dare retta. Il processo di secolarizzazione è un altro fattore importante che ha allontanato di fatto le persone da una dimensione metafisica che ha caratterizzato buona parte del secolo scorso. I fattori sono tanti, tutti questi fattori messi insieme rispetto ad una società ottocentesca in cui si moriva a 30-40 anni e poi una vita segnata da epidemie, guerre, in cui la morte era una presenza quotidiana ecco che noi oggi in questo processo che unisce la performatività all’allungamento della vita, l’ospedalizzazione dei morenti, perché abbiamo cominciato ad allontanare i morenti dai luoghi quotidiani della nostra esistenza e ci hanno portato al paradosso di sapere di essere degli esseri mortali ma non applicare questa mortalità a noi stessi e a cercare di parlarne anche il meno possibile, la parola morte di fatto si fa fatica a pronunciare e a me fa sempre parecchio sorridere che quando muore un personaggio pubblico viene riportata la notizia di questa morte e si scrivono frasi tipo ‘è venuto a mancare’ che è una formula secondo me orribile perchè cosa vuol dire è venuto a mancare?”
Joe Casini: “Ti vengo assolutamente dietro. Partiamo dal tema del linguaggio che mi sembra molto interessante. Prima dicevamo questa dimensione social siamo tutti, chi più chi meno, coinvolti quindi i dibattiti avvengono su queste piattaforme. Lì la parola morte è una di quelle parole che non viene favorita dall’algoritmo. Quindi la domanda che ti volevo fare è: come il modo in cui parliamo influenza il modo in cui viviamo il fenomeno, gli spazi che riusciamo a preservare per poter parlare e condividere, alimentano l’approccio che abbiamo rispetto a questo tema così importante?”
Davide Sisto: “Il problema enorme, secondo me, da questo punto di vista soprattutto da un punto di vista in cui c’è un linguaggio che non vuole utilizzare la parola morte, non parliamo della parola suicidio che è il tabù dei tabù, fa sì che ci troviamo a vivere una situazione tale per cui ciascuno di noi fondamnetalmente è sicuro che domani sarà vivo. Ora, è ovvio che si spera sia così, se noi pensassimo che ogni istante potrebbe essere l’ultimo questo potrebbe essere paralizzante e ci potrebbe impedire anche solo di uscire di casa, però l’eccesso contrario quello di far finta che noi molto probabilmente moriremo quando saremo molto vecchi e non è prevedibile il fenomeno morte nella nostra quotidianità questo fa sì che poi quando questa morte arriva all’improvviso o prematuramente, perchè purtroppo ci si può ammalare o ci possono essere degli incidenti che ci tolgono la vita, o quando è capitata la pandemia del covid e dobbiamo far fronte a qualcosa che potrebbe di colpo farci morire ecco che scaturisce tutta una serie di problemi che vanno fondamentalmente dall’aumento dell’ansia, da un accrescimento della depressione com’è successo dopo la pandemia, dalla negazione dell’accettazione di come stanno le cose e a mio modo di vedere anche tante forme di negazionismo quando abbiamo affrontato la pandemia erano legate al non voler prendere coscienza che noi viviamo in modo tale per cui ogni istante potrebbe essere l’ultimo. Ecco, non utilizzare la parola amore, non ne prendere coscienza, abbiamo l’incertezza che è l’elemento che definisce il nostro vivere, questo può incrementare tutta una serie di gigantesche problematiche a livello psicologico. C’è un libro, mi piace menzionarlo, di Irvin Yalom ‘Fissando il sole’ in cui raccontava tutta una serie di situazioni che hanno caratterizzato i suoi pazienti di depressione, ansie, fobie, e quello che voleva dimostrare che buona parte di queste fobie erano riconducibili ad un evento traumatico del passato dove c’era stata una morte non accettata ed ecco che il concetto del fissare il sole sta ad indicare un processo per cui noi dovremmo cominciare a riprendere coscienza della nostra mortalità, come non riusciamo a fissare il sole con gli occhi perché ci darebbe molto fastidio ma dobbiamo guardare il sole lentamente per abituarci alla sua forza, alla sua luminosità, dove dobbiamo anche riuscire a scardinare quelle barriere difensive che ci hanno addirittura portato a credere che la nostra vita può essere immortale o che la morte non ci riguarda ma riguarda sempre il nostro vicino di casa, una persona lontana e che quando si avvicina all’interno del perimetro della nostra esistenza ci sciocca in una maniera tale in cui rimaniamo paralizzati e non sappiamo più cosa fare.”
Joe Casini: “Sai che mentre parlavi mi veniva in mente un collegamento con l’ultima puntata del podcast. Nella scorsa puntata abbiamo fatto una bella chiacchierata con Elisa Belotti. Abbiamo parlato di chiesa cattolica e di come il continuo negare alcuni temi o non volerli affrontare, pensiamo appunto a tutti i temi legati alla discriminazione di genere o i diritti lgbtq+, paradossalmente non fa altro che rendere più fragili le istituzioni. Mentre parlavi mi veniva in mente questo paragone, effettivamente tutte le volte che ci rifiutiamo di vedere qualcosa che è lì e che esercita un’azione nelle nostre vite, per quanto possa essere appunto comprensibile il desiderio di non voler vedere certe cose o di voler negare anche a livello inconscio però poi, siccome quei fenomeni sono lì ed esercitano comunque un’azione, negandoli non facciamo che diventare più fragili. Come dicevi tu, nel momento in cui succede un episodio in maniera più o meno traumatica, più o meno direttamente a contatto, ad esempio con la morte, il non aver avuto un po’ di dimestichezza, c’è una frase che gira ‘per imparare a vivere bisogna anche imparare a morire’, imparare a farlo attutisce l’impatto che ha sulle nostre vite nel momento in cui ci troviamo a doverla affrontare.”
Davide Sisto: “Assolutamente. A proposito di frasi, di citazioni che faccio sempre, mi piace sempre fare, e quindi se qualcuno mi ha già sentito, la sentirà ripetere questa cosa ma mi piace dirla, uno dei miei punti di riferimento come frase è quella di Montaigne che ci dice ‘chi ha imparato a morire ha disimparato a servire’ e che è diventata una specie di fase che caratterizza la base del mio modo di costruire la vita e ovviamente questa frase non significa che la presa di coscienza della propria mortalità ci dovrebbe portare a non dare senso a niente, quindi di conseguenza dico ‘vabbè, non ho controllo della mia vita, so che prima o poi morirò, allora tutto vale, tutto è uguale’. No, significa semplicemente prendere coscienza che spesso, anche per ragioni proprio legate alla nostra fragilità, tendiamo fondamentalmente o a imporci violentemente sugli altri o a subire le imposizioni degli altri per perché diamo troppa importanza a fattori comuni, a questioni comuni che in fondo poi se ci ragioniamo sono secondarie, ecco che riconoscere la nostra mortalità, scendere a patti col fatto che se viviamo, moriamo, e che la morte definisce la vita stessa, ci dovrebbe in linea teorica insegnare a essere più capaci, a essere autonomi, esseri liberi a saper soppesare meglio ciò che merita di essere a ciò che merita appunto importanza rispetto a ciò che invece non la merita. Quindi secondo me, scendere a patti con quella fragilità esistenziale che riguarda propriamente il fatto che noi possiamo morire da un momento all’altro significa anche acquisire, paradossalmente, una forza. Quella forza, appunto, di chi è in grado di gestire in maniera un po’ più libera, indipendente la propria vita rispetto a chi infondo, non prendendo coscienza del limite, tende poi a dare valore eccessivo a cose che in realtà sono superflue e rimanere fondamentalmente poi frenato, schiacciato in situazioni in cui questa morte ricompare. A me è capitato spesso di confrontarmi con persone che provengono da paesi del mondo che sono meno fortunati del nostro e che hanno a che fare con la morte quotidianamente o quasi quotidianamente e che hanno un rapporto con la morte molto più pacificato, proprio perché l’emergenza ha fatto sì che non ci sia modo di aggirarne il pensiero. Adesso uno non deve sperare che per imparare a morire dobbiamo fondamentalmente essere circondati da fatti sanguinari, da situazioni drammatiche però certamente forse può essere a distanza un insegnamento, quello di ricordare che nulla è dovuto e che proprio questo nulla è dovuto è un elemento fondamentale per costruire la nostra vita giorno dopo giorno.”
Joe Casini: “Abbiamo un po’ toccato il tema psicologico. Magari tendiamo a negare il tema perché ci spaventa e questo è sicuramente un fatto. Tu, per esempio, facevi riferimento a come sono cambiate l’allungamento dell’età della vita, cambiano le varie fasi, le varie terminologie. Ora andiamo sempre più incontro a malattie comunque diverse da quelle per cui morivamo fino a cinquant’anni fa. Tutte cose ovviamente di per sé, diciamo, positive, nella misura in cui si allunga la vita. Poi c’è tutto un tema che da una parte la qualità della vita, dall’altra come viene gestita una persona non autosufficiente, perché più si va in là nel corso della vita, più facilmente si va incontro anche a situazioni non autosufficienti e facevi riferimento al tema dell’ospedalizzazione di come abbiamo tolto il tema della morte nelle nostre case e abbiamo appunto organizzato in situazioni sicuramente più pratiche e che impattano di meno sulla nostra quotidianità. Una delle domande che ti volevo fare è: secondo te c’è anche un tema economico? Nel senso c’è in qualche modo il fatto di volerci vedere sempre giovani, sempre produttivi, oggi ti dicono che sei un ragazzo a cinquant’anni, a sessant’anni, nel senso, questo voler negare determinate fasi della vita, determinate fragilità, in qualche modo, secondo te ha anche a che fare con una visione ormai che nostra società è ormai fortemente capitalistica. Quindi un modo di vedere le fasi della vita dilatando quelle che possono essere, se vuoi, più funzionali a un sistema appunto basato sul consumo e cercando di trasformare in PIL. Perché poi se vado a ospedalizzare la malattia, vado a fare determinate cose, sto anche andando comunque a trasformare un’attività economica ciò che possono essere processi di cura che magari vengono fatti prima in casa. Dico questo ovviamente considerando che è evidente che una situazione di malattia lunga in casa ha un impatto emotivo enorme per le persone. Però c’è questa forse anche tendenza che risponde anche a un preciso modello economico di società, o no?”
Davide Sisto: “Secondo me sì, stando al titolo del del podcast ‘mondo complesso’ è un grande problema veramente di complessità nel dare una valutazione o positiva o negativa della situazione in cui noi viviamo. Perché noi possiamo veramente dire di non avere quasi più una possibilità di paragonarci con i nostri antenati, soprattutto con i nostri antenati anche già solo della fine dell’Ottocento, da prima delle due guerre mondiali. Perché ovviamente prima col fatto che la durata dell’età media della vita, come dicevo, era di trenta, quarant’anni, poi ovviamente c’era chi poteva vivere di più, però in linea generale quella era la durata media, si facevano tantissimi figli perché si sapeva che tantissimi bambini sarebbero morti, probabilmente non avrebbero superato l’età dell’infanzia ma anche al di là di questo, tutta la vita era costruita lavorativamente, sentimentalmente e via dicendo, sulla base dell’idea che uno avrebbe avuto a disposizione pochi decenni da gestire. Oggi siamo arrivati a un punto in cui ne abbiamo veramente tanti, perché ormai si dice che non mancherà molto quando la durata media della vita sarà di cent’anni. Questo da un certo punto di vista è assolutamente un bene, nel senso che io francamente se sono in salute, se riusciamo a essere in salute, la medicina è molto migliorata, la sanità è molto migliorata in buona parte dei paesi occidentali e possiamo vivere a lungo bene, possiamo fondamentalmente poter arrivare a settanta o ottant’anni senza ammalarci in maniera significativa, poi anche lì, purtroppo ci possono anche essere molto malattie croniche o altre malattie che hanno luogo precedentemente, però diciamo che generalizzando possiamo vivere bene a lungo. è ovvio che questo è stato intercettato da un certo modo di interpretare la vita dei cittadini dei vari paesi. Il capitalismo certamente ha intercettato questo fenomeno perché la possibilità di vivere a lungo accompagnata anche da strumenti tecnologici che registrano la nostra presenza e quindi, per dire, l’artista che muore giovane ma che in qualche modo ha prodotto molte immagini fotografiche, video di sè, rimane eternamente giovane nell’immaginario intensifica questa idea del fatto che giovane e bello che noi possiamo essere giovani a lungo e il male e le persone anziane o le persone fragili e malate diventano quasi una specie di disturbo di questa mentalità generale e collettiva. E questo è certamente un enorme problema e diciamo il contrappasso di un elisir di lunga vita che abbiamo in qualche modo ottenuto è veramente difficile, a mio modo di vedere, riuscire a barcamenarsi bene tra i due aspetti. Perché, per fare un esempio, ci sono filosofi catastrofisti come Byung-chul Han che continuamente nei suoi scritti da l’idea che una volta al mondo fosse perfetto, che oggi è tutto negativo, siamo andati ad una deriva, sembra che viviamo in un mondo pessimo, ma da un certo punto di vista siamo molto fortunati a non poter per esempio, se domani mi viene mal di denti, io so che in quel dente se mi verrà tolto o se dovrà essere operato non mi provocherà quasi nessun dolore. Un tempo una cosa del genere ti poteva addirittura portare alla morte. Ecco, noi siamo molto fortunati. Siamo fortunati a poter curare il nostro aspetto fisico, a potere in qualche modo arrivare all’età in cui ho, io appunto ho compiuto 46 anni e a poter apparire giovane, mostrarmi giovane, sentirmi anche giovane, è un aspetto assolutamente positivo che però certamente ha come contrappasso quello di rientrare all’interno di un circuito in cui fragilità, invecchiamento, senescenza e via dicendo diventano degli intoppi a una vita che dovrebbe in qualche modo plastificarci ed ecco perché va tanto di moda per esempio il transumanesimo vanno di moda certe immagini diciamo del big gym scolpito o della modella perfetta, che poi crea tutta una serie di disagi nelle persone più giovani. Quindi è sicuramente un enorme problema e non è facilissimo muoversi tra il pro e i contro.”
Joe Casini: “Guarda hai toccato un paio di temi su cui arriveremo. Sicuramente quello che stavi raccontando di ragionare per trade off, cioè il fatto che non ci siano tante cose positive nel mondo in cui viviamo. Io pure faccio spesso questo esercizio quando ti dicono ‘ah, si stava meglio prima, cinquant’anni fa’ dici sì okay però andiamo a vedere tutto. Però il fatto di vedere appunto i trade off quindi gli effetti che possono essere ambivalenti se non anche negativi di fenomeni che hanno anche tanti aspetti positivi, non vuol dire negare aspetti positivi, questo è uno dei rischi che si corre andando a semplificare appunto il mondo in cose positive e cose negative, spesso poi in realtà bisogna sempre ragionare in termini di situazioni. Proprio in questo ti volevo domandare: nel presente, con tutti gli aspetti positivi che il presente ha come è cambiato il modo in cui ad esempio, penso ai social, viene vissuto, raccontato, condiviso il lutto? Noi prima dicevamo abituarci a guardare le cose ci aiuta a diventare più resilienti quando poi i fenomeni avvengono, tant’è che tutte le religioni hanno sviluppato dei rituali collettivi proprio per metabolizzare la morte. Ci sono tutta una serie di rituali che mettiamo in atto per comunicare su questo. Ecco, ora che siamo su una piazza che non è più fisica ma è virtuale come quella dei social, questo sta cambiando il modo in cui quel dolore lo condividiamo? Se lo continuiamo a condividere.”
Davide Sisto: “Secondo me è molto interessante quello che sta succedendo sui social, perché i social hanno in qualche modo intercettato il problema della rimozione della morte e tutta una serie di problematiche legate all’elaborazione del lutto. Tornando alla società capitalistica di prima ci siamo abituati a vivere un lutto sempre più in solitaria, per cui le persone ci sono vicine durante il rito funebre, superato quel rito funebre, chi ha sofferto una grave perdita deve fondamentalmente arrangiarsi da solo, nel mondo del lavoro danno tre giorni di permesso poi bisogna ritornare a essere performativi. Ci sono paesi diversi dalla nostra cultura, come la Cina, dove non danno nemmeno un giorno di permesso. Ci sono casi in cui non danno nemmeno un giorno di permesso di lavoro e ci siamo anche abituati a quella situazione per cui io non devo dare troppo fastidio agli altri, né con la mia sofferenza, perché se io piango a lungo, se io soffro eccetera, gli altri dopo un po’ si spazientiscono, e mi dicono quelle classiche frasi ‘Eh ma tirati su, bisogna andare avanti’, tutte quelle cose classiche che vengono raccontate. E addirittura si è patologizzare il lutto da stabilendogli una durata oltre la quale diventa fondamentalmente una patologia. I social hanno intercettato questo e hanno creato una via di mezzo, secondo me, per una nuova forma di rito collettivo. A partire però da quel processo di individualizzazione che è tipico dei social, con i social ciascuno di noi è diventato un protagonista, nel bene o nel male. Sappiamo che la nostra voce può assumere una sua importanza e ormai siamo abituati che i nostri profili sono dei profili che hanno un ruolo pubblico un quanto singoli individui. All’interno di questo però abbiamo cercato e abbiamo voluto creare una specie di surrogato di questa mancanza del rito collettivo, di questa mancanza appunto che è venuta soprattutto in Occidente del rito collettivo legato all’elaborazione del lutto. Quindi succede ormai a seconda delle caratteristiche dei singoli social, si vengono a creare molti rituali fai da te da Facebook, dove è più possibile trovare persone di una certa età che creano gruppi e pagine dedicate a specifici lutti che permettono così di creare comunanza con persone sconosciute che hanno patito lo stesso lutto; a tik tok, in cui si utilizzano le forme di creatività tipiche di tik tok, anche magari con dei trend per mettere in luce certi aspetti legati al lutto. Per esempio, io ultimamente mi sono incappato in una serie di video dove vediamo persone che si truccano e che si vestono per andare al funerale, per cercare di spiegare che durante il dolore che si sta provando c’è anche una dimensione pubblica che purtroppo bisogna in qualche modo curare. Ci sono trend vari che cercano in qualche modo di rappresentare creativamente le varie fasi del lutto. Ci sono anche fenomeni e questo apre nella direzione, potremmo dire anche forse negativo o comunque discutibile, che ho visto ultimamente che ne hanno molto colpito, persone, per esempio, che decidono di farsi riprendere mentre in lacrime si congelano, per esempio dall’animale domestico, prima di essere portato a fare l’eutanasia. E allora è ovvio che da questo aspetto, da questo ritorno pubblico del lutto, da questo bisogno di dare una forma pubblica attraverso gli schermi al lutto ci si chiede anche, ma perché io che sto soffrendo e sto piangendo per il mio gatto che sto per portarlo dal veterinario a far sopprimere devo farmi registrare e riprendere mentre piango e tengo la zampa del gatto? Questo ovviamente è un tema su cui appunto io che ormai studio da diversi anni è un tema complesso, perché ovviamente questo incide e intercetta l’esibizionismo, il narcisismo, anche una forma di superficialità nel mettere in pubblico i propri sentimenti, dall’altra parte intercetta anche un bisogno, nel senso se io sento di dover farmi riprendere in questo momento e condividerlo online vuol dire anche che c’è una specie di vuoto nella mia vita quotidiana, per cui cerco un sostegno che faccio fatica a trovare accanto a me ed ecco che quindi quel sostegno che avviene attraverso gli schermi può anche essere salutare. è molto complicato riuscire a districarsi tra gli aspetti positivi e negativi, però oggi di certo questo è un fatto: i social hanno in qualche modo inglobato le varie forme di rappresentazione del lutto e oggi siamo in una fase di trasformazione in cui riportiamo il lutto ma anche la malattia perché il discorso che sto facendo vale anche per la malattia. La malattia è l’altro grande tabù, siamo sempre più portati a vedere, per esempio, persone che stanno affrontando la chemioterapia senza capelli, senza peli e quello è un problema per quello persone, perché per strada si sa che quando vediamo una persona che sta affrontando una chemio ci viene naturale osservarla e guardarla con una forma di disagio e anche quello è un modo per sdoganare un problema e per affrontarlo. Quindi è un aspetto secondo me su cui potremmo forse avere delle chiavi di lettura molto più specifiche per qualche anno, perché il fenomeno poi si è sviluppato negli ultimi 10 anni ha avuto un incremento notevole negli ultimi 10 anni, per quanto abbia già preso piede a fine anni ’90 però diciamo che la grande diffusione del lutto social lo ricondurrei dall’epoca degli inizi dei social, diciamo dall’epoca di Facebook dal 2004 o forse ancora di più dal 2007/2008 che sono gli anni in cui si sono diffusi a macchia d’olio in tutto il mondo.”
Joe Casini: “a proposito di fenomeni che vedremo poi dove ci porteranno, rimanendo sempre in ambito tecnologico tu prima facevi riferimento al transumanesimo e quindi in qualche modo ne abbiamo parlato anche qui alcune volte di questa corrente che fondamentalmente vede l’applicazione tecnologia finalizzata a superare quelli che sono i nostri limiti fisici, organici come esseri viventi e chiaramente qual limite più definitivo se non proprio quello della morte. In questo senso, tra le varie tecnologie che vengono spesso accostate al tema di come superare la morte, ora ce n’è una in particolare di cui si parla molto a proposito più o meno di qualsiasi argomento che è intelligenza artificiale e in questi ultimi mesi si sta parlando molto per esempio dell’intelligenza artificiale come tecnologia per continuare, se vogliamo così dirla, a vivere o perlomeno anche per continuare a dare una relazione ai nostri cari con una rappresentazione di noi nel momento in cui veniamo a mancare. Se n’è iniziamo a parlare un netto fa quando fu utilizzata per intervistare persone morte, quindi i primi podcast, i primi tentativi in questo senso e poi ultimamente ho visto diverse piattaforme che danno la possibilità di addestrare o ricreare attraverso una chatbot fondamentalmente un agente conversazionale AI, qualcosa che rappresenti più o meno noi stessi, proprio per consentire alle persone di continuare un dialogo con noi attraverso questo strumento. Mi sembra una cosa abbastanza borderline, tu come la vedi?”
Davide Sisto: “Secondo me il morto è sempre stata rimasto presente tra i vivi. Cioè una delle classiche definizioni che viene data al morto è quella di essere l’incarnazione della presenza di un’assente, i morti rimangono tra di noi ovviamente a livello più simbolico e non presenti in modalità fisica e ogni innovazione tecnologica o tecnica ha cercato in qualche modo di trattenere una porzione maggiore del morto. Dalla fotografia al fonografo, tutti gli strumenti che ci permettono in qualche modo di trattenere qualcosa del morto. Sono stati in fondo strumenti che ci hanno permesso di conservare la presenza del nostro caro. Oggi abbiamo fatto un salto in più. Se nell’Ottocento volevamo parlare con i morti attraverso le sedute spiritiche oppure chiedevamo fondamentalmente ai fotografi abili di fotografarci col fantasma del morto che poi era una creazione puramente artistica, però c’era questo fenomeno e ci sono anche personaggi abbastanza noti che ci credevano a questa cosa, oggi siamo arrivati a un punto che i morti potrebbero veramente continuare a dialogare con noi. Questa premessa che ti faccio la faccio proprio per dire che è un fenomeno nuovo, ma secondo me va innanzitutto letto come un momentaneo punto di arrivo di un lungo processo in cui noi non ci accontentiamo della morte delle persone amate. Il problema di questo processo è ovviamente quello di cadere sicuramente una trappola, nella situazione di confondere quello che non è il morto, perché la persona è morta e basta, cioè questi progetti di intelligenza artificiale riproducono delle connessioni di causa-effetto, riproducono dei modi che hanno caratterizzato la nostra vita, però di fatto sono privi della nostra presenza identitaria completa; quindi, sono sempre soltanto una specie di piccola porzione di quello che siamo stati. Di conseguenza, il rischio grande è, soprattutto le persone più fragili, che scendono poco a patti con l’idea della perdita, rimangano in qualche modo imprigionati all’interno di un dialogo con qualche cosa che di fatto non era la persona amata e si rischia fondamentalmente, laddove soprattutto ci sono stati dei lutti molto traumatici, genitori che hanno perso dei figli, relazioni sentimentali che si sono interrotte prematuramente, qualsiasi tipo di relazione molto drammatica che in qualche modo intercetta delle anime fragili ecco che poi c’è il rischio, per esempio, che una persona tornata dal lavoro non frequenti vivi e magari parli col morto attraverso alexa che ci dice che a breve ci permetterà di dialogare con le voci delle nostre persone care, oppure avremmo l’ologramma o l’avatar del nostro caro defunto. E si dice che in Cina già si può avere oggi col corrispettivo di pochi dollari degli strumenti del genere. E questo sicuramente è molto problematico. D’altronde io come vedi mi muovo sempre tra un piano e la negatività di possibilità perché secondo me e ripeto, essendo uno studioso a me piace anche cercare di vedere i due lati delle cose, d’altronde spesso quando cerco di comprendere questi fenomeni e cercare di capirne una possibile utilità, mi viene da dire, per esempio un bambino che ha perso il nonno quando faceva le elementari se si ritrova il chatbot del nonno da adulto, penso che se un bambino non ha grandi problemi di natura psicologica, sa gestire quel dialogo come se stesse facendo avendo un ricordo più vivido del nonno, di cui difficilmente ricorderà la voce, l’intonazione, il gergo e via dicendo, che male c’è. Se una persona molto anziana, che per esempio soffre di demenza o Alzheimer, a pochi anni di vita perde il marito o la moglie e si ritrova ad avere una chatbot del marito della moglie e si perde in quegli ultimi anni in questo dialogo, è una persona anziana sta morendo e ha l’Alzheimer, che problema c’è se si ritrova alienata in questa relazione fittizia? Ti faccio un esempio, pochi giorni prima che morisse mia nonna in ospedale, che appunto aveva la testa che ormai non andava più tutta entusiasta quando la vado a trovare mi dice ‘sai chi mi è venuta a trovare oggi?’ ‘Chi ti è venuto a trovare?’ ‘Mike Bongiorno’, e abbiamo chiacchierato tutto il tempo, eccetera. Ovviamente l’aveva sognato. Ma se io gli avessi detto, ‘ma cosa stai dicendo? Non è possibile che ti sia venuta a trovare Mike Bongiorno ‘ avrei fatto più del male di quanto lei credesse invece di aver avuto un incontro con Mike Bongiorno. Di conseguenza se un anziano parla con la chatbot del marito morto secondo me non è un problema. Quindi ci sono circostanze a mio modo di vedere che renderebbero questo tipo di strumenti assolutamente accettabili. Invece diventano problematiche se due genitori hanno perso un figlio di 17 anni in un incidente stradale, ma vabbè in qualsiasi circostanza, forse avere il chatbot del figlio con cui dialogare diventa veramente un problema serio che per quanto riguarda noi stessi pensare a una chatbot di noi dopo la morte il ragionamento può essere duplice: da una parte posso dire chi se ne frega, io sono morto se resto sotto forma di chatbot non è un problema mio, dall’altra parte posso dire no, non voglio assolutamente che questo succeda e do delle indicazioni tali perché questa cosa non avvenga e ci si gestisce in questo modo. Madonna nel suo testamento ha stabilito che non vuole diventare un ologramma e di conseguenza, secondo me quella può essere una duplice via.”
Joe Casini: “Spesso i fenomeni hanno tanti aspetti negativi quanto positivi e che soprattutto questi non sono statici ma appunto dipendono dal contesto in cui vengono analizzati, è anche vero che spesso certi fenomeni arrivano a muoversi su una sottilissima linea grigia tant’è che una delle domande qui che faccio spesso è la cosiddetta domanda del filo del rasoio e che è quella che ti vorrei fare ora: abbiamo parlato in qualche modo di come parlare sui social, ad esempio, e condividere la dimensione dell’otto, il tema della morte, ci consente di avere più pratiche e dimestichezza con quel tema e quindi affrontarlo meglio se si dovesse presentare per contro spettacolarizzare può portare a banalizzarlo, ad anestetizzarlo e quindi avere l’effetto contrario. Abbiamo parlato di come la possibilità di utilizzare l’intelligenza artificiale è un altro strumento col quale esorcizziamo al pari di una foto o di un video, ci permette di poter approcciare con un passo che può essere modulato secondo le nostre esigenze emotive, per contro però può portare ad altre sfide. La domanda che ti volevo fare è: siamo su questa, su questo filo del rasoio, qual è secondo te la linea dove sentiamo che questo modo di approcciare al tema fino a questo punto ha un significato passato oltre questa linea diventa un’altra cosa? Secondo te c’è un confine che sentiamo quando iniziamo ad avvicinarci?”
Davide Sisto: “Questo confine secondo me è riconducibile di nuovo al punto di partenza del nostro dialogo, cioè la presa di coscienza del rapporto tra la vita e la morte e la presa di coscienza della mia mortalità e della mortalità dei miei cari, se noi affrontiamo tutti questi fenomeni nuovi che hanno degli aspetti positivi o negativi, ma con l’atteggiamento che nega la morte, il senso della morte per la vita e che non accetta la morte mia e delle persone care, ecco che tutti questi strumenti e queste situazioni ci fanno superare un confine dopo il quale ci ritroviamo fondamentalmente imprigionati in una visione irrealistica della realtà per cui cominciamo a credere veramente che la chatbot con cui stiamo parlando è veramente la persona che è defunta, rimaniamo convinti che, per esempio, tutta la partecipazione sui social al nostro modo di descrivere il lutto, se una partecipazione pienamente sentita e pienamente condivisa, quando comunque una è una partecipazione sempre mediata dagli schermi che quindi ha dei limiti, cioè rischiamo, a mio modo di vedere, se non prendiamo coscienza del fatto che siamo mortali, che la morte ha un senso specifico nella nostra vita a prescindere dal fatto che noi crediamo in un aldilà o che siamo nichilisti atei, non crediamo in niente ecco che se neghiamo e perdiamo di vista quello tutti questi strumenti possono in qualche modo farci completamente perdere il filo e il segno e il senso delle cose, e quindi fondamentalmente possiamo maturare forme di alienazione, sensi di onnipotenza e via dicendo. Quindi secondo me il problema sta a monte d questo poi riguarda anche l’utilizzo poi dei social, delle tecnologie anche in altri settori, in altri campi, se noi non abbiamo consapevolezza che quello che facciamo attraverso gli schermi è una parte di noi, ma che non coincide completamente con ciò che noi siamo, quindi per esempio per farmi capire se creiamo delle relazioni interpersonali, amorose, sentimentali, con una chatbot o con qualcuno che non abbiamo mai incontrato ma soltanto vediamo mediato dai nostri schermi, se questo appunto ci fa star bene ok ma se non prendiamo coscienza che la nostra vita è anche una vita che richiede una pienezza di sensi, una pienezza di modalità espressive che devono includere anche, appunto, la nostra presenza psicofisica ecco che anche li perdiamo di vista quello che noi siamo, cioè alla fine bisogna essere molto consapevoli di che cosa siamo, di chi siamo, di come siamo fatti per poter poi adoperare strumenti che ci offrono nuove modalità di espressione, nuove modalità con cui portare avanti la nostra vita.”
Joe Casini: “Perfetto, stiamo andando in chiusura di puntata. Prima però ti vorrei fare un’altra domanda che è ricorrente nel podcast. È una domanda che può far sorridere, però mi piace moltissimo capire chi ha scelto una professione o un certo tema da approfondire e magari per quel tema poi ci troviamo a fare le chiacchierate qui però come in qualche modo ci si è arrivati e mi piace prendere proprio dall’inizio e domandare: tu da bambino che lavoro volevi fare?”
Davide Sisto: “Ammetto che non è che mi ricordo benissimo da bambino quali erano le mie ambizioni. Diciamo che se non da bambino o da adolescente, quello è un po’ il sogno del cassetto che rimane ancora presente ma che non si realizzerà mai, era quello di lavorare nel mondo della musica, ma non necessariamente suonare, anche soltanto diventare scrittore, giornalista di musica, che poi quella è la mia grandissima passione. 10 giorni fa sono stato invitato a un convegno per parlare di Kurt Cobain è stato fondamentalmente uno dei momenti più belli del di questo anno vissuto perché quelli sono temi a cui sono molto legato. Quindi quella era forse la più grande ambizione che avevo.”
Joe Casini: “Passione per la musica, scrivere di musica o comunque stare in quel settore, poi filosofia e approfondire in particolare il tema della morte, in qualche modo, rivedendolo all’indietro, qual è il nesso che vedi nel tuo percorso?”
Davide Sisto: “Io sono una persona che ama cambiare, trasformarsi ed essere incoerente. Io ho fatto un percorso filosofico molto tradizionale di cui poi mi sono stufato e per cui sono entrato in questi mondi molto più interdisciplinari, più legati alle cose che faccio adesso. Il filo conduttore è il fatto, anche implicito, forse non lo so, dorrei andare allo psicologo, magari mi da delle risposte migliori, io ho sempre pensato alla morte fin da ragazzino cioè io ho una visione molto realistica della vita, non sono uno che si costruisce molte fantasie, cerca di non vedere le cose come sono a me piace vedere le cose di impatto, cioè non mi costruisco delle cose che ammortizzano, la mia esistenza, invece a me piace vedere la forza, l’urto, anche radicale dell’esistenza. Di conseguenza non ho mai avuto problemi ad affrontare la mia morte anche la mia possibile morte prematura, ci ho sempre pensato e quindi quello è un elemento. Un elemento in più: sono sempre stato appassionato, fin da ragazzino, del romanticismo tedesco e nel romanticismo ottocentesco la morte è un tema ricorrente in più, e questo lo aggiungo sul piano legato alla musica, anche lì per in parte per ragioni familiari che mi hanno iniziato i miei genitori, poi per percorsi miei, sono un appassionato di heavy metal e nel metal la morte è sempre stato un tema ricorrente; quindi, fin da ragazzino sono abituato a testi che parlano di morte in continuazione probabilmente questi fattori hanno poi fatto sì che sia entrato in questo percorso. E aggiungo anche un ulteriore aspetto: il lutto in particolare è una situazione in cui la fragilità legata al lutto è una fragilità che in qualche modo spesso toglie quelle scorze molto dure nelle persone. Un momento di fragilità che rende più autentiche le persone. Il fatto di poter lavorare con questo tipo di autenticità che spesso viene in parte nascosta anche per esigenze per doveri della quotidianità mi piace molto.”
Joe Casini: “Normalizzare e non banalizzare questo tema e al tempo stesso essere poi in contatto con questa parte della nostra esistenza, che poi appunto se neghiamo, corre il rischio veramente di fare anche più danni. A questo punto Davide siamo al momento conclusivo ed è quello della domanda tra gli ospiti. Il primo ospite che ti propongo è Nicholas Lozito, giornalista che scrive per La Stampa e si occupa soprattutto di temi legati alla crisi ambientale e in generale di temi green, abbiamo parlato in particolare dell’intersezione tra giornalismo e temi green. Il secondo ospite è Carola Frediani, giornalista che si occupa soprattutto di intersezione tra tecnologia, geopolitica e tutto ciò che riguarda cyber war. Il terzo ospite è Jessica Cani, si occupa di divulgazione enogastronomica e quindi abbiamo parlato del rapporto tra la parte enogastronomica e le nostre culture territoriali. Quale ti incuriosisce di più?”
Davide Sisto: “Visto che abbiam parlato di temi complessi ti direi la terza sul cibo.”
Joe Casini: “Jessica in realtà ha lasciato una domanda molto difficile: qual è la volta in cui un piatto o un ingrediente ti ha colpito così tanto da farti ribaltare la visione che credevi di te stesso?”
Davide Sisto: “è una domanda veramente molto difficile. Io sono una persona molto amante del Nord Europa, io sono portato per il freddo, amo i paesi del nord, eccetera. Sono stato l’anno scorso in Spagna per la prima volta e ho mangiato una paella particolarmente buona e quel piatto all’interno di un contesto anche molto positivo in cui mi sono trovato in Spagna, mi ha fatto in qualche modo avvicinare a una cultura e una visione della vita che fondamentalmente è secondaria rispetto ai miei gusti, quindi potrei dirti questo.”
Joe Casini: “Tra l’altro è una domanda molto difficile ma quando esce fuori è incredibile la risposta, capita a volte che ci troviamo in situazioni in cui un momento particolare legato al cibo ci da un insight legata a noi e quindi è tanto difficile la domanda quanto poi sono interessanti le risposte. A questo punto è il tuo turno di lasciare una domanda per i prossimi ospiti.”
Davide Sisto: “Che cosa vorresti fare assolutamente prima di morire?”
Joe Casini: “Che domandona. Tu hai già risposto a questa domanda?”
Davide Sisto: “Ho dato un paio di risposte, una frivola e una più esistenziale. Quella frivola è il fatto che l’anno scorso ho realizzato il sogno di andare a Seattle quindi posso morire felice per questo. La risposta più esistenziale è quella per cui in fondo va bene quello che ho fatto finora per cui se capitasse una morte prematura non mi dispiacerebbe, ho realizzato tante cose, ne ho perse altre, la solita via di mezzo tra obiettivi raggiunti e nostalgie.”
Joe Casini: “Sono molto curioso di giocarmi questa domanda con i prossimi ospiti. Io ti ringrazio per essere stato con noi questa domenica.”
Davide Sisto: “Grazie a voi!”
Joe Casini: “E ovviamente ringrazio tutti voi che avete passato questa domenica in nostra compagnia, ci vediamo tra 2 settimane con un nuova puntata del podcast.”