Insieme a Silvia Semenzin, ricercatrice e attivista, parliamo di come difendere i nostri diritti digitali dalle piattaforme, dell’evoluzione dell’attivismo online e della campagna che ha portato alla prima legge che criminalizza in Italia la condivisione non consensuale di immagini intime.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti in una nuova puntata di Mondo Complesso, puntata numero 44, oggi è una puntata molto importante perché come ospite abbiamo una persona che stimo molto, non soltanto per l’attività di divulgazione e di ricerca che fa, ma soprattutto per il modo in cui riesce a coniugare questa attività con l’attivismo ma anche con l’efficacia. Intanto do il benvenuto a Silvia Semenzin.”
Silvia Semenzin: “Ciao Joe, grazie dell’invito e della presentazione.”
Joe Casini: “Come dicevo ammiro molto il modo in cui riesci a coniugare l’attività di ricerca con l’attivismo ma anche con la capacità di avere un impatto poi nella società. Tu sei ricercatrice di sociologia digitale, e ti muovi soprattutto nell’intersezione tra tecnologia e discriminazioni. Tra le attività che hai fatto poi sei stata promotrice di una campagna nel 2018 che è culminata con una legge rispetto al tema del revenge porn. Sono molto contento di poter esplorare con te questo tema e capire insieme come queste tematiche si possono affrontare e cambiare in tempi anche relativamente brevi. La prima domanda che ti faccio per entrare subito nel vivo della conversazione è la domanda semplice: cos’è il revenge porn?”
Silvia Semenzin: “Cominciamo proprio dall’inizio, ed è la domanda esatta con cui addentrarci nel tema. Revenge porn è un termine che ha permesso alla popolazione generale di entrare in contatto con il fenomeno della violenza di genere online ma va detto da subito che è un termine che non andrebbe utilizzata, è molto legato ai media mainstream, alla cultura popolare perché poi i casi più conosciuti a livello pubblico di violenza di genere online sono quelli legati a questa fantomatica vendetta pornografica. Ci ricorderemo il caso più importante in Italia di Tiziana Cantone che ha proprio aperto una luce verso questo fenomeno ma il motivo per cui non dovremmo parlare di revenge porn è che in realtà nella stragrande maggioranza di casi in cui una foto o un video viene divulgato online senza il consenso della persona interessata, foto o video a sfondo sessuale, la vendetta quasi mai è una delle ragioni per cui questo avviene, una delle ragioni è che quasi sempre il potere sui corpi, sulla libertà di qualcun altro, il controllo e di solito sono queste le ragioni che spingono qualcuno a divulgare una foto o a minacciare di pubblicarla. Dall’altra parte c’è un altro termine oltre al revenge che è quello di porn, che in questo caso non è corretto perché il materiale che noi vediamo divulgato senza consenso non è di natura pornografica ma di natura sessuale e intima, ma pornografica di solito sta a significare che esistono dei contratti alla base della pubblicazione, della divulgazione di materiale di natura sessuale sulle piattaforme pornografiche, in questo caso quello che va a mancare è il consenso. Il modo in cui si preferisce chiamare questo fenomeno è stato ‘condivisione non consensuale di materiale intimo’ in inglese c’è un altro termine che è ancora meglio ‘image based sexual abuse’ (abuso sessuale basato sull’immagine) questo ci racconta proprio della natura legata alla violenza sessuale che questo fenomeno rappresenta e che per il 90% dei casi vede come vittime le donne e proprio per questo va trattato come una violenza di genere, una nuova dimensione di violenza contro le donne che con internet si sta radicalizzando e amplificando.”
Joe Casini: “Mi piace molto l’attenzione sul tema del linguaggio, da questo punto di vista diciamo volendo vedere il bicchiere mezzo pieno in questi anni forse alcuni temi sono stati posti maggiormente all’attenzione, se ne parla di più anche sui media mainstream, quindi da questo punto di vista qualcosa si muove. Dall’altra parte una cosa che appare sempre evidente è la difficoltà con il quale i media riescono a padroneggiare il linguaggio di uno specifico fenomeno posto che poi sono le famose intersezioni, come il tema del patriarcato. Spesso vedendo chi si occupa di comunicazione quindi che dovrebbe avere una sensibilità maggiore anche a come il linguaggio impatta sul modo in cui raccontiamo i fenomeni e quindi interpretiamo le notizie. A volte l’impressione è che facciano proprio fatica a fare questo passaggio per cui fenomeni che finalmente vengono attenzionati a volte vengono attenzionati in un modo che non è il migliore per dare la lettura più efficace e corretta. Nella tua esperienza qual è stato il percorso nella costruzione del linguaggio e come vedi oggi l’adozione del linguaggio per questi aspetti?”
Silvia Semenzin: “Ripartire dal linguaggio per me è fondamentale nel momento in cui stavo costruendo una campagna di comunicazione relativa di sensibilizzazione su questo fenomeno e io stessa all’inizio lo chiamavo revenge porn e mano mano che studiavo, che facevo ricerca e che mi confrontavo con l’esperienza di altri survivor e di organizzazioni che erano internazionali e che già stavano lavorando da anni su queste tematiche, mi sono proprio resa conto che dovevamo ripartire da lì. Questo è importante perché nel momento in cui si andava a raccontare a livello pubblico un fenomeno pubblico con l’intenzione di avere un impatto politico era importante che già dalla nomenclatura, dalla definizione del fenomeno fossero chiari alcuni aspetti come ad esempio il consenso che ho appena citato oppure la libertà sessuale femminile o la dimensione digitale della sessualità, tutte tematiche che in una sola definizione come ‘diffusione non consensuale di materiale intimo sessuale’ magari potevano essere spacchettate un po’ meglio. Qual è stata la difficoltà maggiore? Da una parte sicuramente questo processo di presa di coscienza in un momento in cui, parliamo del 2018, non c’erano dati, non c’erano tante definizioni rispetto alla violenza di genere online, fare davvero una cernita e una raccolta di tutte le possibili dimensioni con cui oggi la violenza di genere si verifica in rete che sono tantissime, va detto, non esiste solo la condivisione senza consenso di materiale intimo sessuale. Quanta più tecnologia esiste quanta più innovazione quanta più violenza purtroppo, quasi sempre le cose vanno di pari passo. Dall’altra parte c’è la difficoltà che tu menzioni, l’avere a che fare molto spesso con una cultura mediatica che non so se semplicemente ignora la necessità di cambiare i termini o se in molti casi sia propria una volontà politica di ignorare la necessità di questo cambiamento linguistico e culturale per cui magari anche nel dare le notizie si preferiva utilizzare questo termine che ancora oggi viene utilizzato in larghissima scala nonostante siano anni che le attiviste e le persone esperte di queste tematiche chiedono di smettere di utilizzare questo termine, si preferisce andare alla ricerca della storia strappalacrime di una vittima per andare poi a inserirsi nella sua storia personale, andare a decretare quali sono le colpe e le responsabilità di chi poi la violenza la subisce e questo noi sappiamo che tra l’altro è completamente contrario anche a quello che è il manifesto di Venezia che va a disciplinare l’etica del giornalismo per cui queste storie andrebbero raccontate in una maniera molto diversa secondo me. Quello che anche durante la campagna ma anche dopo e quello che continuo a fare oggi è soprattutto richiedere che l’attenzione venga messa su chi la violenza la compie e che quindi le responsabilità e le colpe vadano ricercate in quel senso. Questo implica comprendere il patriarcato, cosa significa violenza di genere, che cosa significa mascolinità o femminilità da un punto di vista della costruzione di genere e ripeto secondo me c’è una volontà politica di non farlo perché questo è quello che abbiamo visto anche a novembre, il 25, dopo la morta di Giulia Cecchettin, come si sono mossi i media italiani. Io risiedo all’estero e mi è più facile fare una comparazione rispetto per esempio a come parlano i media spagnoli dei casi di violenza di genere, c’è un abisso culturale impressionante, che purtroppo non sta migliorando secondo me.”
Joe Casini: “Tu facevi riferimento al 25 ma mi veniva in mente mentre parlavi che in quel periodo abbiamo avuto casi in tv, anche in tv di Stato, di giornalisti o comunque persone conduttrici che facevano vittimizzazione secondarie. Sei un servizio pubblico, ma anche se non fosse un servizio pubblico da un punto di vista strettamente deontologico, siamo in una fase in cui alcuni discorsi sono abbastanza maturi per non dare alibi a chi si occupa di quelle cose per non trovare il modo giusto per raccontarle, quindi iniziano effettivamente a colpire moltissimo e questo è uno di quei casi in cui io penso si fa molta retorica dei social e degli effetti negativi che hanno sulla società, il modo in cui ci informiamo etc. Io ogni volta che sento questo tipo di narrazione penso in realtà a come forse da questo punto di vista i social siano stati un motore straordinario per tantissime tematiche che hanno avuto la possibilità di maturare, anche in tempi abbastanza rapidi, di trovare una loro completezza, non soltanto perché è stata fatta molta ricerca, molto confronto ma anche nel linguaggio, ma anche per trovare un modo per far capire e raccontare in maniera chiara ed efficace fenomeni anche molto complessi. Da questo punto di vista la tua esperienza com’è stata e come va avanti?”
Silvia Semenzin: “Sicuramente i social network è vero che per alcune comunità e soprattutto gruppi marginalizzati hanno rappresentato, e a volte rappresentano, un modo di farsi conoscere e di espandersi. Io, tra l’altro, mi sono iniziata a interessare di social network e di studio di essi più o meno nel 2015 quando erano appena stati gli anni degli indignados, occupy wall street, delle primavere araba quindi io venivo da un grande entusiasmo verso il potere dei social network per l’attivismo. Per esempio anche la stessa campagna ‘intimità violata’ che è poi è stata quella che ha portato all’articolo 612 ter che oggi criminalizza il revenge porn che è nata sui social network da una petizione online e poi si è espansa anche grazie all’aiuto di persone che magari avevano già un certo seguito online. Secondo me è sbagliato forse guardare alla natura dei social in una maniera maniche, o bianco o nero, perché la verità sta nel mezzo. Anche come attivista ti posso dire che è vero che a volta questi social sono in grado di espandere la voce, fare da megafono, dall’altra parte è vero che questi non sono dei luoghi neutrali, per esempio il movimento femminista o di liberazione sessuale che comprendono anche le comunità queer, vedono che negli anni magari con gli stessi strumenti che a un certo punto avevano permesso una liberazione nel linguaggio, nella rappresentazione e nel racconto dei corpi, i una nuova forma di censura perché poi in realtà le piattaforme si adattano a quelle che sono le richieste culturali e anzi molto spesso sono in grado di codificare delle norme etiche che nelle nostre società non sono scritte ma tramite i social network diventano scritte ad esempio la censura del capezzolo femmilie, la censura della sessualità che arriva anche alla censura del linguaggio intorno alla sessualità quindi nella stesso periodo grazie ai social la mia campagna si espandeva, allo stesso tempo mi è successo più volte di venire censurata, di vedere il mio profilo Instagram chiuso perché parlavo di tematiche come la pornografia in una maniera molto aperta ho fatto ricerca anche su quello che sono le piattaforme pornogafiche quindi magari andavo a raccontare la mia ricerca ma già il fatto di nominare la pornografia all’interno di queste piattaforme non è concesso, figuriamoci mostrarsi da un punto di vista ritentuto troppo esplicito dalle piattaforme, il che è assurdo se pensi che poi invece i contenuti violenti e non consensuali molto spesso all’interno di queste piattaforme si espandono in una maniera ultra virale e velocissima, quindi c’è un doppio standard, quello che significa libertà di espressione e di rappresentazione, io sono sempre molto cauta quando devo pensare a questo cambiamento positivo o negativo che portano i social, credo che sia un riflesso di quello che abbiamo già, è solo piu veloce da vedere.”
Joe Casini: “è vero, hai toccato tra l’altro un tema che mi colpisce sempre molto su come noi abbiamo l’idea che paragoniamo i social a delle piazze come se fossero dei luoghi pubblici ma in realtà sono degli spazi privati e si nota moltissimo per chi li usa. Una delle cose che si nota facilmente è come certi temi vengono affrontati utilizzando un linguaggio che vede spesso usare lettere al posto di numeri, giri di parole, immagini, si cerca di aggirare una censura esattamente quello che si potrebbe fare se vivessimo in un paese con la dittatura e dovessimo organizzare una resistenza, da questo punto di vista è un’asimmetria pazzesca vedi proprio come certi temi se ne parla con gli stessi espedienti con cui se ne parlerebbe sotto dittatura. Da ricercatrice vedendo proprio le strutture, come questi spazi sono strutturati, organizzati e gestiti, qual è la situazione e fino a che punto ci possiamo immaginare un cambiamento sostanziale?”
Silvia Semenzin: “Nonostante io faccia ricerca da molti anni su queste tematiche è vero che questi spazi sono difficili da comprendere del tutto perché proprio per la loro natura sono opachi, quindi non sappiamo esattamente che cosa succede all’interno di queste reti algoritmiche quindi non sappiamo esattamente che cosa succede all’interno di queste reti algoritmico perchè non c’è dato saperlo e come dicevi giustamente sono chiuse, sono private e quindi non sappiamo come usino i nostri dati, come li analizzano e soprattutto come poi le condividono anche se abbiamo avuto vari intuizioni per capire che il modo in cui lo fanno sicuramente non è né etico né politicamente utile anche perchè poi sono piattaforme che cambiano continuamente quindi anche instagram stesso va cambiando ogni sei mesi, ci sono delle linee guida molto spesso difficoltose da comprendere perchè poi sono un po’ ambigue specie per quello che riguarda la sessualità ma soprattutto anche i discorsi politici, in questo momento non posso non pensare a quello che sta succedendo nella striscia di Gaza e come i social stessi siano alla barra per essere partecipanti attivi di colpe nel stare censurando le barbarietà del conflitto. Ci sono tra l’altro dei metodi di censura più subdoli rispetto al ban vero e proprio e quindi la rimozione dai social network come lo shadowban quindi censura più lieve, non viene neanche avvisato dalla piattaforma che il tuo profilo è meno visibile ma ricevi meno visualizzazioni, il profilo non viene suggerito e quindi tu non sai cosa sta succedendo e questo succede molto spesso quando si usano parole proibite come ‘Palestina’. Ci sono già all’attivo tutta una serie di organi e di tentativi di regolamentazione che dovranno necessariamente muoversi nella direzione di regolamentare molto meglio queste piattaforme perché un’azienda privata e ancora di più una multinazionale come quella dei social network non possiamo pensare che sia in grado di autoregolarsi, non rienterà mai nei propri interessi. Pensa per esempio nel caso di Meta, c’è un organo che è indipendente, l’ha creato Meta e si chiama ‘oversight board’ e si occupa proprio di vigilare sui diritti umani e sulle violazioni che la piattaforma può portare avanti. è quindi organo a cui arrivano tutte le denunce da parte degli attivisti dagli ambiti più disperati e cercano di far valere i diritti umani con l’azienda, sono ovviamente processi lenti a volte ci si riesce a volte no, però almeno c’è questo tentativo di decentralizzare un pochino le decisioni rispetto a quello che può essere visto/non visto online perché non può decidere una sola persona. L’altra cosa sono i regolamenti europei che sono tra i più importanti nel mondo, penso al recentissimo IA Act, che sta andando proprio nella direzione di mettere un freno al potere spudorato di queste piattaforme private. Io credo che sia l’unica direzione da seguire ed è anche tutto quello per cui oggi mi batto, anche nell’ambito della violenza di genere sono certa che se se manca il discorso sulle piattaforme mainstream di social media e piattaforme digitali è molto complesso che riusciremo a trovare delle soluzioni perché in realtà internet non è quello che ci si immaginava all’inizio, non è orizzontale, è costituito da tante bolle molto grosse e tutte molto centralizzate, non abbiamo questo potere effettivo che speravamo.”
Joe Casini: “Abbiamo parlato di luoghi, di intimità, sessualità, ma anche di uso di tecnologie. Mi è venuto in mente all’indomani dell’omicidio di Giulia Cecchettin, una delle prime reazioni è stata ‘dobbiamo mettere al centro la scuola’, credo che poi forse abbiano effettivamente fatto, ma per un attimo abbiamo detto abbiamo un luogo dove formiamo le giovanissime persone per entrare in società e forze dovremo cominiciare a mettergli l’accento. Veniamo da una tecnologia che sicuramente ha cambiato il modo in cui ci relazioniamo tra di noi, per alcuni versi ha fatto perdere intimità per altri ha creato il modo in cui creiamo intimità, veniamo dalla fase pandemica che ha avuto un impatto enorme ma anche l’uso stesso delle tecnologia è qualcosa che non si può dare per scontato, i social network non significa saper postare, anche lì bisognerebbe imparare ad utilizzarli con cognizione. Tu dal punto di vista della scuola come pensi si possa andare lì a intervenire? Ci sono dei casi o delle proposte in corso che sono significative?”
Silvia Semenzin: “Per quanto riguarda la scuola italiana per me ci starebbe da buttare tutto, sono molto chiara su questo, io credo che non funzioni più niente e questo lo credo perchè ho la possibilità spesso di andare a scuola e conoscere studenti/studentesse e soprattutto dopo la pandemia ho notato che c’è una svogliatezza di andare a scuola, i ragazzi e le ragazze sentono le istituzioni scolastiche come lontanissime da loro, non partecipano veramente con il loro mondo che poi è quello che inizia quando finisce la campanella e che spesso e volentieri si consuma all’interno dei nostri cellulari, quindi purtroppo l’educazione risiede nell’insegnare codici, nell’insegnare a programmare, ma quasi nulla ha a che vedere con l’educazione civica digitale. L’educazione civica digitale riesce ad entrare nelle scuole quasi sempre solo esclusivamente quando si parla di rischi quindi quando si va a fare questo terrorismo psicologico per dire ‘ragazzi non usate internet, è un posto orribile pieno di pedofili e persone cattivissime’ ovviamente questa cosa non puo che respingere i ragazzi che continueranno comunque ad usare internet ma mancano di quella parte più responsabilizzante ed etica che aiuta a comprendere poi gli ambienti che navighiamo. Dal punto di vista del digitale la scuola ha ancora tanto da fare anche a livello di infrastrutture, lo abbiamo visto con la pandemia stessa, ci sono tante altre cose che aggiungerei nella scuola italiana che vanno dall’educazione sentimentale, socio-emotiva, sessuale che ormai sono delle parolacce in questo periodo in Italia e i risultati si vedono purtroppo. Ci tengo però a dire un’altra cosa, molto spesso pensiamo che i giovani siano gli unici responsabili degli ambienti digitali che viviamo quando in realtà questa educazione digitale manca anche e soprattutto alle persone adulte, noi non siamo di fronte a persone formatrici, penso ai genitori ma anche ai professori, che siano in grado di spiegare agli studenti la complessità del mondo digitale e il modo in cui muoversi all’interno perché basta aprire un qualsiasi articolo di Repubblica e guardare la sezione commenti su Facebook e rendersi conto le persone adulte sono ben lontane dall’essere civilizzate su internet. Questo mi fa pensare anche alla storia di questa donna che si è tolta la vita dopo aver ricevuto un’ennesima gogna sui social network e per me questo è inaccettabile soprattutto quando la giustificazione a questo è ‘ma se ti esponi devi aspettarti che qualcuno ti venga a dire che non è d’accordo o che gli fai schifo’ e questo è un altro dei miti di internet, il pensare che stare su internet automaticamente preveda a dover subire della violenza e questa è alla base della cultura dello stupro e di qualsiasi cultura violenta, cioè il pensare che sia normale dover vivere violenze e che non si possa far niente per combatterla. Io questo non lo credo, sono profondamente in disaccordo, credo che l’educazione in questo sia più che necessaria, più aspettiamo peggio andrà, credo davvero che l’unico modo sia ripartire dalla cultura perché i problemi che vediamo su internet sono prima di tutto sociali e culturali.”
Joe Casini: “Mi veniva in mente quando parlavi della questione dei confini del fatto che essere in uno spazio condiviso non vuol dire che non ci siano confini. Ho visto un po’ di tempo fa una tua intervista in cui commentando la legge che si basa sulla campagna del 2018 dicevi ‘la legge non sta funzionando come immaginavamo’ eri abbastanza critica sugli effetti della legge. Come mai?”
Silvia Semenzin: “Lo sono ancora, la mia posizione non è ottimista rispetto alla legge che ho contribuito a far approvare, questo ha delle ragioni molto specifiche cioè che purtroppo rispetto al disegno di legge che era stato proposto in un momento iniziale, quello che oggi abbiamo è la versione mozzata e frettolosa di un articolo che non è un disegno di legge intero e che purtroppo è andato a inquadrare il fenomeno partendo dall’idea di revenge porn. Oggi è ancora ad onere delle vittime dimostrare di aver ricevuto un abuso tra l’altro su base dolosa e quindi con l’idea di vendetta e di arrecare un danno e questo è difficilissimo in tanti casi, specie se pensiamo ai casi che sono diventati famosi in Italia come il caso di Telegram in cui in questo caso la violenza è a tutti gli effetti una violenza di gruppo e invece l’articolo che abbiamo oggi continua ad insistere sul fatto che si tratti di sorta di violenza tra due persone, insiste sulla responsabilità del partner, dell’ex partner, addirittura fa una specifica per le donne in gravidanza e lascia fuori tutta la parte dei minori che invece sono una fetta enorme in cui poi questo fenomeno si consuma, quindi è una legge fatta male purtroppo, come spesso succede in Italia perché questo va detto. L’importante poi è fare delle leggi e dire di averle fatte, non importa se sono efficaci o meno. è stato visto che purtroppo essendo che non è stata presa in considerazione tutto quello che ho detto, quindi il fatto che non necessariamente sia una vendetta, il fatto che questa sia una violenza di gruppo, gli ambienti digitali in cui la violenza si consuma, quali sono le responsabilità digitali, oggi lascia fuori l’80% di donne che denunciano e questo è gravissimo, vuol dire che questa legge che è stata fatta partendo da una campagna femminista che raccoglieva le voci delle survivor, che è partita da una survivor stessa, rappresenta una poca volotnà di ascoltare e soprattutto di nuovo questa volontà principalmente di dire ‘abbiamo fatto la legge risolto il problema, non avete più nulla di cui lamentarvi, ora tornatevene zitte e non rompete eccessivamente le scatole’ purtroppo invece fatalità dopo la legege è scoppiata la pandemia e questo problema si è aggravato, il fenomeno è cresciuto di oltre il 70%, più passavamo tempo online più la violenza cresceva, le violenze nel frattempo si sono anche espanse, sono cambiate, si sono evolute, quindi ci sarebbe di nuovo, come per la scuola, buttare giù tutto e rifare. Per quanto mi riguarda, da una parte mi rattrista dall’altra mi rincuora il fatto che il mio stesso lavoro sia sulla legge che a livello di ricerca sia molto apprezzato all’estero, perchè io lavoro tantissimo con un rating internazionale di attivisti che hanno fatto legge simili nel resto del mondo, penso al Messico, alla Francia, all’Inghilterra, Stati Uniti, Australia e per quanto riguarda l’Italia vedo che questo interesse nell’involucrare questo tipo di lavoro che va dalla ricerca fino alla militanza non c’è perché quasi sempre questi casi diventano casi mediatici nel giro di 24 ore si consumano, non sono più rilevanti quindi ci si pensa la prossima volta, in realtà non è cambiato praticamente niente. Torno a dire che non bastano gli strumenti legali bisognerebbe fare qualcosina di più.”
Joe Casini: “A tal proposito visto che abbiamo rotto il ghiaccio, ti faccio la domanda della birra di troppo, vedendo il tuo sito c’è una cosa che mi ha colpito molto che nel momento in cui si atterra la prima cosa che viene distinta è la parte della Silvia ricercatrice dalla Silvia attivista. Questa cosa hai sentito il bisogno di separare? Dare un’alternativa di queste due cose?”
Silvia Semenzin: “Questa è una bella domanda, quel sito l’ho fatto nel 2018 periodo in cui stavo ancora facendo il mio dottorato quindi io stessa non credevo di essere una vera ricercatrice poi mi sono esposta in un momento in cui ero molto giovane, avevo 26 anni, ed ero al primo anno del mio dottorato quindi per me c’era anche uno sforzo importante da dover portare avanti che era quello di avere credibilità in un certo senso, perchè tu hai una ragazza di 26 anni che ti racconta una storia di violenza, tendenzialmente quello che fanno i media lo sai benissimo, è proprio vittimizzarti o infantilizzarti e non certo trattarti come un’esperta nonostante io stessi già facendo un dottorato, forse anche per questo ai tempi volevo separare in modo che fosse chiaro. Trattatemi come un’esperta poi quello che faccio arriva anche da una matrice personale e se vai a vedere quel sito la parte preponderante è quella dell’attivismo perché è tutto quello che faccio nel tempo libero, sento di essere nata per fare quello insieme alla ricerca per cui è vero che le due cose si parlano. Il modo in cui faccio ricerca poi è quello che mette benzina nella militanza e nell’attivismo e che mi permette poi di tessere reti collettive, non potrei fare a meno nè di uno nè dell’altro. Forse purtroppo a volte è anche come la stessa accademia è costruita specie in Italia, dove poi ho fatto il dottorato, adesso mi sono spostata ma ai tempi lo facevo a Milano, che cercavo forse di vivere le due cose, io mi ricordo che alcune persone mi dicevano ‘bello tutto però adesso pensa a studiare, a fare la tesi’, e io dicevo ‘ma sapete che all’estero il fatto che tu porti fuori dalle mura universitarie quello che stai facendo a livello di ricerca è altissimamente premiato’ in Italia questa cosa non si premia anzi diventa un modo per farti perdere di credibilità dal punto vista accademico, come se fossi sufficientemente china sulla scrivania tutto il tempo. Questa cosa non è successa solo a me, penso anche a Vera Gheno, una delle più importanti socio-linguiste che abbiamo in Italia, e che ha raccontato tantissime volte come questa sua terza missione in realtà a lei sia costata tre volte la bocciatura come ordinaria, questo fa riflettere.”
Joe Casini: “è una cosa incredibile, è vero che spesso gli ospiti della puntata sono persone che vengono dal mondo accademico però l’argomento toccato ora emerge con una frequenza spaventosa. Tu citavi ora Vera e anche lei è stata ospite ed è uscito fuori il tema, due puntate fa anche con Gloria Origgi, che insegna a Parigi, lei diceva che uno dei motivi per cui alla fine è andata all’estero è anche perchè fare studi interdisciplinari piuttosto che avere delle esperienze di apertura, la famosa terza missione in qualche modo esce spesso fuori, come in Italia, sia qualcosa come calata dall’alto che per alcune università è stata l’opportunità di viversi un nuovo slancio ma per tantissime si fa fatica ad interpretarla. Da questo punto di vista la tua esperienza come ricercatrice pensi che potresti fare quello che fai anche in Italia?”
Silvia Semenzin: “Lottando con le unghie e con i denti forse sì, forse devi avere anche quelle che si chiamano ‘classiche botte di culo’ e devi fare tanta più fatica forse rispetto ad altri luoghi, quindi la vera domanda è se lo vorrei fare. In questo momento ti dico la verità credo di no, credo di avere trovato una dimensione in Spagna dove posso bilanciare bene la vita personale con quella lavorativa cosa che a Milano era impossibile e quindi l’idea di tornare indietro soprattutto per com’è adesso il panorama politico/accademico/culturale mi riesce difficile, io in questo momento ho quasi una relazione a distanza con l’Italia. Poi chi lo sa, nella vita mai dire mai comunque sono molto legata alle mie origini, è un amore-odio costante come tutti gli amori, però in questo momento non c’è niente che io non possa fare anche all’estero e quindi ora preferisco rimanere qui.”
Joe Casini: “Parlando sempre delle tue ricerche ho visto uno studio su PornHub, sugli stereotipi di genere. Ora si parla tantissimo di intelligenza artificiale e uno dei temi che si è affrontato spesso è la famosa questione dei bias, io credo che da un certo punto di vista uno dei vantaggi dell’intelligenza artificiale, forse, è proprio quello che è più semplice riconoscere i bias e correggerli soprattutto sull’intelligenza artificiale che sull’intelligenza umana. La domanda che ti volevo fare a proposito di stereotipi di genere, di come vengono trattati i corpi: secondo te la tecnologia diventa una lente che ci aiuta a vederli e quindi lavorarci o al contrario pone delle questioni che possono essere insormontabili?”
Silvia Semenzin: “Questa è una questione interessante secondo me forse partirei dal dire che comunque pretendere la perfezione dalla tecnologia è impossibile proprio perché la perfezione non è umana, non esiste, quindi il margine di errore è sempre dietro l’angolo. Però è interessante pensare a questa cosa che dicevi che la tecnologia a volte diventa una lente di ingrandimento alla discriminazioni perché forse è un po quello che sta davvero avvenendo ripartendo anche dal discorso social network arrivando anche a implementazioni più recenti di intelligenza artificiale che fosse quella generativa come Chat GPT è vero che questi cosiddetti bias sono più rapidi da vedere e da conoscere però io credo che le due dimensioni si parlino costantemente non è che una crea l’altra e basta, si creano costantemente a vicenda, quindi quella culturale, sociale e tecnologica sono costantemente in dialogo. Per creare tecnologie, intelligenze artificiali più inclusive, quindi meno discriminanti, perchè perfette non lo saranno mai, la parola dovrebbe essere ‘includere’ e quindi questo significa che l’inclusione dovrebbe ripartire già dal design della piattaforma, dalla sua produzione in un primissimo momento, invece quello che facciamo oggi è cercare di tamponare gli errori quando ormai sono già stati fatti e quando la violenza è già avvenuta. Quando menzionavi la ricerca su PornHub che abbiamo fatto, quella è una ricerca collettiva che è stata fatta tra l’Università di Milano e King Expo che è questa organizzazione che adesso non esiste più che però prima si occupava di costruire degli algoritmi che erano in grado di trollare e andare a studiare come funzionavano gli algoritmi delle grandi piattaforme, saremo riusciti a mettere in piedi quest’altra architettura che si è occupata di studiare gli algoritmi delle piattaforme pornografiche, principalmente PornHub, che tra l’altro sono quelle meno studiate e chiacchierate da un punto di vista politico perché ancora rappresentano un grandissimo tabù. Parlare di pornografia significa riconoscere che le persone la consumano, quindi molto spesso restano fuori dalle regolamentazioni e dai dibattiti pubblici proprio perchè c’è tantissimo pudore nel parlare di porno.”
Joe Casini: “Hai toccato questo angolo che è molto interessante. Per questioni puramente culturali tendiamo a non parlare di porno a volerlo come negare, il problema di questa cosa è che poi si crea un enorme cono d’ombra che poi fa sì che vanno avanti dei fenomeni che tu non vedi perché non li vuoi vedere. Quindi, la domanda che ti volevo fare è: com’è la situazione su questo tipo di piattaforme? Cosa sta succedendo a livello di dati? Anche a livello di contenuti cosa si muove?”
Silvia Semenzin: “Qualcosa si muove in questo senso anche da un punto di vista politico, questo è interessante perché di nuovo quello che sta accadendo nasce a cavallo di questa ricerca di cui stavo parlando, una ricerca che molto brevemente è semplicemente riuscita a raccogliere una serie di dati che da una parte dimostravano che le piattaforme di porno mainstream, come PornHub, restituiscono uno sguardo etero-normativo, indipendentemente dalla persona che usa la piattaforma. Anche se PornHub è in grado di tracciare i dati personali delle persone che entrano, comunque proprone quasi sempre una home page identica che è basata sullo sguardo maschile-eterosessuale, dall’altra parte siamo stati in grado di raccogliere i dati che dimostravano che PornHub stesse velando gpt ar, proprio perchè non presentava nessun trakker che avvisava del traccimaento dati e quindi sfuggiva alla regolamentazione. Questo ha creato una campagna che è stata chiamata in un primo momento ‘stop data porn’ che ha portato a Cipro PornHub come imputato di aver violato la privacy e l’intimità degli utenti. Questo in un primo momento ha spinto Porn Hub a inserire questo banner che dice ‘ti stiamo tracciando’ però ovviamente era troppo tardi quindi adesso è uscita questa notizia che sembra che PornHub verrà incluso all’interno del digital service act come very large platform. Significa che le piattaforme pornografiche potrebbero dover sottostare allo stesso tipo di regolamentazione dei social network, questa sarebbe una notizia immensa perché per la prima volta finalmente anche queste piattaforme e questo traffico dati che rappresenta una fetta enorme del mercato di internet, mi sembra che sia più grande del mercato del gaming, quindi parliamo di economie che muovono tantissimi soldi, in questo momento è completamente sregolata, quindi stiamo a guardare perché le cose potrebbero cambiare finalmente e sarebbe ora visto che ora PornHub e simili sono un giorno sì e un giorno no accusati di traffico sessuale, condivisione senza consenso di immagine, di violenze, di abusi e chi più ne ha più ne metta.”
Joe Casini: “C’è questa teoria che dice che tutti i progressi tecnologici sono stati in funzione del porno, quindi se vai a vedere c’era un meme che girava la banda larga era il momento in cui si è iniziato ad utilizzare il porno a casa per lo streaming, però effettivamente ricalca molto bene non so quanto sarà attendibile. C’era anche un meme che girava sui telefoni, il trend era renderli sempre più piccoli poi ad un certo punto sono diventati sempre più grandi e c’era una freccia che diceva qui quando abbiamo iniziato a vedere il porno sul cellulare. Battute a parte, sicuramente è un’industria che dal punto di vista tecnologico è sempre stata molto ricettiva, quindi di passare alla fase conclusiva del podcast, ti volevo domandare, ora con l’intelligenza artificiale, di pensare quindi al porno personalizzato, i deep fake, si aprono anche lì scenari enormi, come vedi l’impatto di nuove tecnologie sulle piattaforme e sui contenuti?”
Silvia Semenzin: “Un po’ come diceva all’inizio purtroppo stiamo agendo molto lentamente, questo significa che queste nuove tecnologie rappresentano delle minacce crescenti per le donne e le comunità marginalizzate, tu hai menzionato il deep fake porn che nell’ultimo anno è esploso in una maniera impressionante, esisteva già prima l’avevo incontrato nella ricerca su Telegram, sono tantissime le vittime e tantissime minorenni che oggi vedono i loro deep nude pubblicate tra l’altro su queste stesse piattaforme. Quello che io penso è che dobbiamo muoverci, parlare di violenza di genere, credere che esista già sarebbe il primo passo ma anche dal punto di vista europeo in questo momento non si muove quasi niente, non esiste una definizione per questo, non esistono normative che prevedano una protezione AI Act, non dice niente sul deep fake porn, ma solo di deep fake da un punto di vista politico o meme, ma tutto quello che riguarda il deep nude e questo genere di violenza non c’è niente. Tutto quello che riguarda la condizione femminile non è quasi mai visto come un’urgenza ma come una conseguenza dello stare online, un qualcosa che continua ad essere rimandato, penso che non si possa più rimandare perché le conseguenze ci sono e quindi ti posso dire che dal punto vista dell’attivismo c’è movimento, spero di vedere presto dei risultati.”
Joe Casini: “Siamo arrivati al momento conclusivo ed è un momento emblematico perché dalla prima puntata ad oggi tutti gli episodi si sono conclusi con la domanda tra gli ospiti. Il primo ospite che ti propongo è Carola Frediani, giornalista che si occupa di cyber war, sicurezza informatica e di come la tecnologia e la geopolitica spesso si sovrappongono. Il secondo ospite è Andrea Pescino che si occupa di intelligenza artificiale. Il terzo ospite è Giuseppe Riva, psicologo, insegna all’università di Milano e in particolare si occupa del rapporto tra tecnologia e psicologia. Quale ti incuriosisce di più?”
Silvia Semenzin: “Io scelgo Carola Frediani perché sono una grande fan.”
Joe Casini: “La domanda che ha lasciato Carola è: qual è il libro sulla tecnologia che hai letto negli ultimi anni e che veramente ti ha cambiato profondamente la prospettiva su un argomento?”
Silvia Semenzin: “Ne ho letti tanti, devo dire che sceglierne uno mi risulta difficile perché poi ci ho scritto una tesi di dottorato su questo. Ti posso dire qual è un libro che raccomanderei per capire gli argomenti di cui abbiamo parlato oggi, scritto da una cara amica e compagna ed è ‘La rete non ci salverà’ di Lilia Giugni. Parla di violenza di genere online ma ne parla in una maniera che non conoscevo e mi ha aperto gli occhi, anche il modo in cui fare attivismo perché sostanzialmente quello che lei fa è raccontare storie di donne che arrivano da luoghi del mondo anche molto diversi e le unisce da fili che sono quelli della tecnologia e che a volte non vediamo, anche quando combattiamo dal punto di vista del femminismo occidentale per la liberazione su internet ci dimentichiamo che dall’altra parte del filo di internet ci sono donne che lavorano dall’India o da paesi poverissimi per tenere insieme quelle piattaforme che sono sfruttate in maniere che non riusciamo a conoscere. è un libro molto bello perchè molto reale e umano e ci racconta la tecnologia da questo punto di vista e non puramente tecnico/filosofico ma più da un punto di vista sociale e umano.”
Joe Casini: “A questo punto è il tuo turno per lasciare una domanda per i prossimi ospiti.”
Silvia Semenzin: “Se avessi una bacchetta magica che cosa cambieresti della tua vita digitale?”
Joe Casini: “Ti userò con parsimonia. La puntata è terminata, è stato un piacere poter chiacchierare con te, quindi grazie di essere stata qui con noi oggi.”
Silvia Semenzin: “Grazie a te dell’invito, continuerò a seguire questo podcast con molto interesse.”
Joe Casini: “Ringrazio anche voi per aver passato anche questa domenica mattina con noi e ci sentiamo come al solito tra due settimane con una nuova puntata di Mondo Complesso. Buona domenica!”