Con Azzurra Rinaldi e Isabella Borrelli parliamo di diritti e di come la loro negazione renda più povere le nostre organizzazioni sociali.
Joe Casini: “Buongiorno e benvenuti a una nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast che parla della nuova complessità del mondo in cui viviamo, un mondo in cui gli argomenti sono sempre più interconnessi. Oggi facciamo una puntata particolarmente ricca perché abbiamo non un ospite, ma ne abbiamo ben due! Oggi ho infatti il piacere di fare una chiacchierata con Azzurra Rinaldi e Isabella Borrelli, quindi per prima cosa benvenute Azzurra e Isabella. Azzurra Rinaldi è un’economista, docente universitaria e dirige la School of Gender Economics di Unitelma Sapienza, quindi un approccio più legato al mondo della formazione, mentre Isabella è digital strategist e PR di Latte Creative e quindi si occupa del mondo del digital, della comunicazione, ma ciò che accomuna Azzurra e Isabella è che sono tutte e due attiviste – nel senso pieno del termine visto che sono davvero molto attive! – per quanto riguarda il tema della gender equality e in generale, tutte le tematiche che riguardano la diffusione di una maggior attenzione verso le questioni che riguardano sia le lotte femministe sia i diritti LGBTQ+. Di solito in apertura noi facciamo quella che chiamiamo una domanda semplice ossia una domanda sintetica e molto generica che dà la possibilità di inquadrare la tematica in maniera peculiare. Quindi, la domanda che volevo fare a tutte e due è: cosa vuol dire, secondo voi, fare attivismo oggi?”
Isabella Borrelli: “Meno male che questa era la domanda semplice, nel senso che l’attivismo per me quantomeno, ha tanti significati diversi. C’è un significato legato al territorio che è quello importante, cioè lavorare sul territorio a contatto con le associazioni, con le istituzioni e con le persone. C’è un attivismo, diciamo legato alla advocacy quindi cercare di influenzare in qualche modo, quantomeno contribuire a offrire un’opinione alternativa su delle tematiche. Questo si può fare ovviamente a livello locale, a livello internazionale, in vario modo. E poi ovviamente c’è una parte di attivismo che ha a che fare strettamente anche con le scelte che noi prendiamo nella vita di tutti i giorni e anche quello vuol dire essere attivi, la cittadinanza attiva, cioè lavorare attivamente prendendo delle scelte che ognuno di noi è chiamato a prendere. Qualche volta non ci accorgiamo nemmeno delle scelte che prendiamo e che però possono influenzare tantissimo il mercato, le istituzioni, i percorsi decisionali, quindi cioè tanti modi di essere attivi. La parola attivista è una parola particolarmente bella in italiano proprio perché è una persona che sceglie di essere soggetto su delle tematiche, quelle che sente più vicino, oppure anche semplicemente quelle su cui siamo chiamati a prendere delle scelte.”
Azzurra Rinaldi: “Dopo questo intervento di Isa cosa vuoi dire più. Per me l’attivismo è non riuscire ad essere indifferente, cosa che io a volte vorrei invece riuscire a fare sinceramente! Ti faccio un esempio recente: ci sono questi fondi per l’impresa femminile che aprono proprio oggi e moltissime donne mi hanno scritto che hanno i loro consulenti, i loro commercialisti e perfino associazioni di categoria che le scoraggiano da presentare domanda e la vocina saggia dentro di me ha detto «ok, non è un tuo problema, lascia stare» e invece no, perché l’attivismo è quello che ti fa dire «non vi preoccupate, adesso cerchiamo di risolvere in qualche modo, adesso se posso vi aiuto io»! È il fatto di non riuscire ad essere indifferenti e prendere posizione che, a volte, non è proprio la posizione più comoda in assoluto… però va bene, diventa una parte di te, diventa una parte di quello che sei, una parte anche delle caratteristiche con cui tu ti definisci ma anche gli altri ti definiscono. Per molte persone magari è bello che non riesco ad essere indifferente, per altre significa che è arrivata la rompipalle!”
Joe Casini: “Sul tema dell’indifferenza mi verrebbe da farti una domanda, diciamo che l’indifferenza ha come controparte la costanza. Per esempio il tema gender gap, gender equality, è uno di quei temi sul quale si viaggia con una velocità un po’ intermittente: ci sono dei momenti in cui viene posto al centro del dibattito, tutti dicono tante belle cose, poi per mesi il tema scompare dai radar. Com’è secondo te la situazione e soprattutto per quanto riguarda l’impatto che questo fenomeno ha sulle aziende di che numeri stiamo parlando?”
Azzurra Rinaldi: “Purtroppo è verissimo, intanto inizierei con un dato positivo, in questi ultimi due anni e mezzo ne parliamo come non abbiamo mai fatto in questo Paese, io mi occupo di questo tema da anni e non è mai successo di avere quasi ogni giorno almeno un articolo su una rivista, almeno un cenno in un programma in radio, almeno un passaggio in un telegiornale in TV, quindi questo dato lo rilevo come molto positivo. Allo stesso modo in molte conferenze, penso anche alle conferenze stampa del premier, si parla di questo argomento che ovviamente comunque contribuisce a incrementare la consapevolezza generale, anche perché io e Isa siamo nella nostra bolla, le nostre bolle si intersecano per una grandissima parte, però ovviamente fuori dalla bolla non è detto che poi tutti abbiano ancora raggiunto un certo livello di consapevolezza. Poi però devo dirti la verità e adesso arriva invece la parte un po’ meno positiva e io sono un’economista, una quantitativa, una delle mie perversioni è andare a vedersi gli Excel, quindi quando ti fanno le cose belle, fighissime «parliamo della parità di genere» io poi sono quella che va a vedersi i numeri dentro gli Excel, in quei documenti del dark web dove mettono i soldi del governo ecc, ecco poi arrivi lì e non c’è niente, quasi niente. O c’è poco o è fatto male o è messo così tanto per metterlo. Secondo me allora, il passaggio che manca per rispondere alla tua domanda è che poi le persone che decidano siano veramente e profondamente consapevoli, e non siamo ancora a questo punto, del fatto che il gender gap in assoluto, ogni discriminazione, non solo è ingiusta per definizione, è anche un costo economico. Anzi, è un doppio costo: da un lato ha un costo oggettivo e lo sappiamo, l’Unione Europea ci dice sono 370 miliardi di euro all’anno, dall’altro lato ha un costo in termini di mancata produzione di ricchezza. Nel nostro Paese abbiamo più di una donna su due che non lavora tra quelle che potrebbe lavorare, ma tu immagini che cosa meravigliosa che potrebbe avviarsi, che delle persone diventano finalmente protagoniste della propria vita? Rompi in molti casi situazioni di violenza economica che diventa anche spesso violenza fisica, aumenti il cosiddetto bargaining power delle donne, quindi il potere contrattuale all’interno delle famiglie, perché ci piaccia o non piaccia questo sistema magari ci fa schifo, ma purtroppo anche all’interno della famiglia chi può parlare è chi produce reddito. È pessimo, ma è così. E poi aumenti la ricchezza di gettito fiscale e quindi i servizi che possono essere forniti dallo Stato, è proprio miope…”
Joe Casini: “È proprio miope però questa cosa mi colpisce moltissimo proprio perché ci sono queste barriere all’ingresso e quindi in qualche modo questi bias ci portano a fare delle scelte non su base meritocratica. Per assurdo se oggi uno dovesse fare un’assunzione e si bendasse gli occhi facendola in maniera totalmente casuale pescando a caso un uomo e una donna da assumere tra gli inoccupati, probabilmente proprio per questo motivo ci sarebbe una concentrazione di capitale umano molto più forte nella popolazione femminile! Nonostante questo c’è difficoltà nel promuovere questo tema nelle aziende, neanche da un punto di vista “logico” se vuoi ci arriviamo… il fatto che hai detto di andare a prendere i numeri mi ha fatto venire in mente, a parte Donata Columbro che è stata ospite in una delle puntate precedenti, un’altra puntata in cui abbiamo parlato con Luana Valletta, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia-Romagna, del bonus psicologo e di come ci fu grande clamore quando venne abolito e quando alla fine fu riabilitato, tutti contenti salvo però andare a vedere i numeri e scoprire che era stato riabilitato con cifre che il bonus TV o il bonus idraulico in confronto facevano impallidire! Quindi sì, poi spesso da questo punto di vista, un conto è quello che si dice e come si dice e un conto sono le azioni. A proposito di complessità volevo fare una domanda a Isabella, un aspetto su cui insistiamo sempre parlando di “mondo complesso” è per contro l’iper-semplificazione e i risultati che produce. Ecco parlando di iper-semplificazione, probabilmente non c’è nulla di più semplice di una logica binaria, ne abbiamo un caso ora con la guerra che purtroppo sta accadendo in Europa, dove tutto diventa «amico» o «nemico». Ogni volta che poi l’analisi dei fenomeni si riduce ad una logica binaria questi si iper-semplificano e si perde tutto ciò che poi diventa un elemento di crescita e ricchezza per la società. In questo mondo sempre più complesso il passaggio da binario a complesso, anche dal punto di vista del riconoscimento delle sfumature, delle identità, cosa sta succedendo secondo te?”
Isabella Borrelli: “La prima premessa che faccio è che io non sono una nemica della semplificazione, nel senso che noi come diceva un celebre libro che ha cambiato moltissimo il mio approccio in generale alla comunicazione, ma anche la comunicazione tra persone, noi il 90% dei pensieri che facciamo solo pensieri veloci, quindi pensieri semplici, non pensieri complessi e di base riuscire anche a semplificare un concerto, quindi a restituirlo in maniera semplice non è una cosa sbagliata, anzi è una cosa che qualche volta, soprattutto, i cosiddetti esperti dovrebbero, è un esercizio importante. Un’altra cosa, invece, è appiattire un discorso, in questo caso il discorso dei generi, in maniera strumentale al fine di polarizzare l’opinione pubblica. La polarizzazione, ovviamente, crea engagement, coinvolgimento, questo non solo online. Gli algoritmi al cui interno ci muoviamo sui social media favoriscono la polarizzazione delle discussioni spostandole molto in alto a livello di ranking e rendendole, utilizzando un aggettivo un po’ abusato, «virali» per portarle su nella curva dell’engagement e questo è vero anche nei mezzi tradizionali o nel dibattito pubblico. Se noi siamo a tavola a Natale e abbiamo due posizioni del tutto contrapposte, il dibattito che noi abbiamo intorno alla tavola è sicuramente molto più acceso e carpisce di più l’attenzione perché due persone che un po’ si danno ragione e un po’ si danno contro sono meno spettacolo di due persone che sono agli opposti lati del ring. Questo è il problema: andare a polarizzare una discussione, tra l’altro di solito dicendo cose assolutamente non vere, anche antiscientifiche. Purtroppo il dibattito sui diritti LGBTQ+, ma in generale sulle questioni di genere, è veramente profondamente anti scientifico. Nel dibattito pubblico che arriva sui giornali, sui media tradizionali, ovviamente anche sui social, vengono spesso portate delle motivazioni, delle riflessioni di solito di due generi. La prima di solito ha a che fare con le opinioni personali, che è una cosa che trovo sempre profondamente imbarazzante. Spesso persone anche importanti approcciano un tema culturale, intellettuale, scientifico attraverso la propria esperienza personale, che per quanto grandiosa e per quanto unica, irripetibile, speciale è pur sempre l’esperienza personale di una persona che non può essere il punto di riferimento delle oppressioni sistemiche, di un fenomeno sociale, di una cosa grandissima che coinvolge così tante materie. Il secondo approccio è quello anti scientifico, cioè mettere insieme una serie di dati, spesso anche di cose proprio dimostrate essere non vere; penso, per esempio anche al fatto che noi parliamo spesso di sesso biologico, quando in realtà si parla di sesso genetico, perché il concetto di «biologico» è un concetto molto molto molto scivoloso. Questo per dire che in generale l’approccio al tema viene fatto o in tema personalistico o in tema anti scientifico e quindi il problema non è la semplificazione, perché uno può spiegare in maniera molto semplice anche delle questioni incredibilmente complesse e questo non è una cosa negativa. Io penso che soprattutto chi ha la passione di voler informare, divulgare, sensibilizzare deve fare i conti anche con il trasmettere dei concetti semplici soprattutto su delle tematiche che da una parte sono complesse che da una parte magari semplicemente sono lontane dalla quotidianità di molte persone.”
Joe Casini: “Scusa se ti interrompo ma questo è un aspetto che mi colpisce molto del dibattito. Tu citavi prima le persone che fanno riferimento alla propria esperienza personale, io credo spesso ci sia anche una scarsa integrazione perché è importante la scienza, ma quando parliamo di «integrare tutto» vuol dire anche integrare aspetti emotivi, empatici. Banalmente essendo un diritto probabilmente a te se viene esteso non cambia nulla, quindi l’accanimento, la sordità che c’è nel dibattito a volte ti porta a domandare perché uno si sente in dovere, neanche in diritto, ma proprio in dovere di metter bocca su cose dove potrebbe tranquillamente ascoltare.”
Isabella Borrelli: “Io penso che noi ci troviamo di fronte a una specie di shock, diciamo post post coloniale in termini d’identità. Si sono erosi così tanto i confini identitari in cui le persone possono rivedersi che molte di loro si sono arroccate in questo shock di perdita di chi sono e dei gruppi ai quali si sentono di appartenere. Per questo si sono arroccati su delle definizioni di chi sono gli altri e hanno costruito su queste la loro identità, il loro senso di appartenenza su quelle che spesso vengono chiamate «tradizioni». Che poi, anche qui da un punto di vista sociologico, la tradizione viene definita da un usus comune, non è detto da quanto tempo questa tradizione debba essere utilizzata per diventare una tradizione all’interno di un gruppo sociale. Però queste famose tradizioni, che non si sa bene da dove vengono, oppure molte volte vengono da un tessuto molto doloroso della storia italiana, penso al colonialismo, penso al fascismo, penso anche proprio alla subordinazione dei generi rispetto a uno, vengono utilizzate come modo per definire chi sono. Sento moltissima aggressività sulle questioni di genere, come se ci fosse la paura che in qualche modo riconoscere l’altro vada a interrogarci su chi siamo noi. Perché le questioni di genere ci pongono davanti a questo. Prima quando mi hai fatto la domanda hai detto una cosa, secondo me, che fa molto riflettere e cioè hai parlato di un «mondo binario» e di uno complesso: tutto il mondo non è binario, anche le persone eterosessuali, cisgender, anche loro non sono binarie. Il punto dell’identità di genere, ma anche dell’orientamento sessuale, in generale di tutte le tematiche che ha portato con sé la comunità LGBTQ+, è proprio che riflettere sull’altro ci porta a riflettere su noi stesse, su noi stessi, a domandarci «ma effettivamente quello in cui ci siamo non definiti – perché solitamente essendo lo standard della persona eterosessuale cisgender non ha mai dovuto riflettere su chi è, non ha mai dovuto definirsi. Una persona eterosessuale non si è mai trovata nella posizione dire sono eterosessuale, questo però cosa porta? Che non ha mai riflettuto su chi è o su che cosa lo ha o la ha influenzata nelle scelte che ha preso, nelle relazioni che ha costruito. Quindi accettare invece che ci sono delle altre persone fa sì che per la prima volta lo standard, che non si sente più lo standard, debba riflettere anche su se stessa. Perché fa arrabbiare le persone quando uno li definisce «eterosessuale cisgender»? Se ci fai caso la reazione è «perché mi stai insultando?» e tu dici – ma io non ti sto insultando, così come se dici che io sono lesbica non mi stai insultando, io non sto insultando, perché si sentono insultate? Perché normalmente sono lo standard, non hanno una parola che li definisce, essere definiti per la prima volta è una cosa scioccante, io lo so che per loro è scioccante. È una cosa fortissima – se tu sei lo standard. Cominciare a pensare che invece ci sono delle parole che lavorano su di te e su cui tu non hai mai riflettuto deve essere una cosa terrificante, io empatizzo moltissimo quello perché deve essere terribile, ed è questo il punto del tema di genere, riflettere su: ma io forse lo sono veramente?’ Hai usato questa parola che mi appartiene, non l’ho mai sentita, non me ne sono mai riappropriato, non l’ho mai decostruita. Mentre nel dibattito arriva una persona come me che ha decostruito tutta la vita le parole che avevano a che fare con me, che sceglievo io, che sceglievano le altre persone per me. Penso e qui chiudo, per fare un esempio sulla parola queer, che è una parola nell’attivismo che soprattutto negli ultimi anni, gli ultimi dieci anni, è tornata moltissimo ad essere utilizzata. La parola queer, come di solito tutte le parole che hanno a che fare con la comunità LGBTQ+ sono degli insulti, che già questo dice moltissimo. In Italiano potremmo tradurre la parola queer con una parola che non ha avuto questo equivalente politico, che è «deviato». Veniva utilizzata la parola straight quindi «dritto», per intendere le persone eterosessuale gisgender e la persona queer era quella deviata, in maniera molto più volgare, e indicava le persone che non aderivano allo standard. Qui faccio una piccola nota: non è che «essere qualcosa» ti rende discriminato e «non esserlo» ti protegge da quella discriminazione, perché stiamo parlando sempre della percezione che hanno le altre persone di noi. Quindi per esempio una cosa che mi fa sorridere è pensare che il DDL Zan per esempio protegga solo le persone LGBTQ+: non è così, protegge tutte le persone, perché mio fratello può essere una persona eterosessuale cisgender, magari non aderire alla norma, essere scambiato per una persona omosessuale e subire discriminazione in base al proprio orientamento sessuale, nonostante lui sia eterosessuale. Quindi, la parola queer ha una valenza di parola ombrello, riunisce sotto il suo significato diversi orientamenti sessuali, identità di genere, cioè tutto quello che è alternativo. Ma non solo, anche diverse scelte relazionali. Nella parola queer si riunisce, in senso molto politico, chiunque rifiuti la dicotomia binaria, chiunque non si riveda nei binari socialmente costruiti. Una volta una studentessa, quando spiego questo concetto, anche in maniera semplificata, facendo degli esempi su come la parola poi si è evoluta mi dice «ma quindi tecnicamente una persona eterosessuale può essere queer?» la risposta è che tecnicamente sì, ovviamente la parola queer si riferisce a tutto quello che non è eterosessuale cisgender ma se noi ipotizziamo in un futuro, che io vorrei che fosse vicino ma temo che sia in realtà lontano, in cui noi arriviamo a decostruire tutte le cose stravaganti che ci sono state imposte, insegnate per ragioni economiche, per ragioni politiche e arriviamo a un superamento di quello che secondo noi è come si deve vestire un uomo, su come si deve vestire una donna, quello che deve fare una donna, quello che deve fare un uomo, cos’è un uomo, cos’è una donna, se noi arrivassimo alla fine di tutto questo percorso anche una persona eterosessuale potrebbe essere queer e questo è il punto dell’approccio che la complessità è dentro ognuno di noi.”
Joe Casini: “Mi ha colpito molto come hai sottolineato il fatto che un approccio complesso crea in qualche modo anche degli spazi di crescita e di evoluzione per ognuno di noi, come pure il riferimento al DDL Zan perché l’intervento pubblico, la società che riconosce il diritto, è qualcosa che va a beneficio di tutti. Se io riconosco il diritto a determinate persone sto riconoscendo dei diritti in realtà a tutti e questo, secondo me, è poi il senso di stare insieme e di stare in una società. A proposito di società mi è venuto in mente, parlando di DDL Zan, che ora si parla molto di PNRR e parlando di interventi del settore pubblico ho una domanda per Azzurra. È notizia di pochissimo, mi pare l’abbia rilanciata anche tu su LinkedIn, che il tema della gender equality è stato messo al centro del PNRR. Ti volevo chiedere in tema di interventi del settore pubblico che consapevolezza c’è del tema ma anche cosa si sta avviando? Ci sono anche dei movimenti – se vogliamo dire così – dall’interno del sistema che cercano di utilizzare il sistema per farlo evolvere, cambiare e porre maggiore attenzione a quelli che alla fine sono momenti di crescita per tutti, come diceva Isabella.”
Azzurra Rinaldi: “Allora guarda mi fa sempre un po’ pensare questa cosa. Nancy Pelosi che ha fatto più figli di me a un certo punto dice: non c’è mai nella Storia un gruppo che detiene il potere e che volontariamente lo cede ad un altro gruppo. E questo è un po’ il tema, nel senso che poi se le policy vengono elaborate anche a livello di politica economica da un solo gruppo che è molto omogeneo internamente è chiaro che si colpisce molto bene un certo tipo di problemi, mentre invece si rischia di ignorare del tutto altri problemi. Io ho 44 anni, sono una donna etero bianca, madre di tre figlie femmine, e dico spesso che se al Governo fossimo soltanto donne di 44 anni, bianche, etero e madri di tre figlie femmine, riusciremo senza dubbio a intervenire bene su chi è bianca, su chi è donna, su chi ha tre figlie femmine, ma perderemmo clamorosamente tutti i problemi di chi non è bianco, chi non e donna, chi non è etero, chi non ha tre figlie femmine. E questo è un po’ come è stato elaborato il PNRR. Tu lo sai, io lo so e Isabella lo sa, io ho lottato fino all’ultimo, facendo quello che so fare, quindi sostanzialmente portando le mie analisi, scrivendo e parlando, perché non so fare nient’altro, e fino all’ultimo cercando di spingere su questo tema. Il PNRR non ha un approccio di genere, non ha un approccio femminista assolutamente, siamo lontanissimi, in coda proprio sono stati aggiunti questi due criteri che sono: criterio di condizionalità per le azienda che vogliono aderire, che vogliono ottenere fondi e devono dimostrare, non si è capito bene, di avere intenzione di raggiungere la gender equality. E poi c’è questo tema della certificazione di genere che è stato introdotto nella penultima versione, che il premier ha cambiato un’ora e venti minuti prima della pubblicazione, che è uno strumento effettivamente di cambiamento interno al sistema. Anzi, un paio di settimane fa, durante l’ennesima conferenza stampa Draghi ha detto «va bene, basta, facciamo che questa certificazione di gender equality diventa un criteri di premialità». Quindi le aziende che hanno deciso di intraprendere questa certificazione sono premiate nell’accesso ai fondi del PNRR e questo diciamo è un po’, come direbbero i nostri amici campani, una «pezza a colori», nel senso che in una struttura che dimentica sostanzialmente le donne mettiamo questo strumento che è uno strumento utile, secondo me si, è uno strumento molto utile. Diciamo che è un primo passo verso la giusta direzione.”
Joe Casini: “Tu nel rapportarti con le aziende che impressione hai? Se questo cambiamento deve venire dall’interno è chiaro, come dici tu, che una classe dominante non ha mai ceduto spontaneamente i propri privilegi. Quindi c’è un momento di contrapposizione, ma anche un momento di confronto e di crescita anche dall’interno. Ecco, anche nel tuo rapporto con le aziende come vedi la situazione?”
Azzurra Rinaldi: “Allora devo dirti abbiamo sviluppato appunto con l’ente certificazione RINA – ma devo dire in tempi non sospetti, nel senso che abbiamo iniziato a lavorarci otto mesi prima che poi entrasse nella bozza del PNRR, per un singolare allineamento di pianeti – e abbiamo sviluppato questa certificazione di gender equality dove i poveri ingegneri del RINA io li ho fatti impazzire perché ho voluto mettere dentro l’algoritmo ad esempio la misurazione del disagio. E come facciamo? Non lo so, qualcosa ci inventiamo! Io sono partita dalla mia esperienza, lavoro nell’università, sono strutturata all’università da quando ero giovane e a me è successo quasi tutti i giorni di andare all’università e di avere il professore di settant’anni che sta nel corridoio con i suoi amici e tu arrivi che magari ne hai venticinque o trenta, sei giovane e bella, e lui ti dice davanti a tutti «com’è bella oggi la professoressa»! Là c’è subito un piano di potere per cui io sono sottoposta per questioni di potere e tu, invece, mostri il tuo testosterone rispetto ai tuoi pari e quello, ad esempio, secondo me andava colto e abbiamo trovato un modo per coglierlo. Poi nella vita personale trovi delle strategie, io ad esempio adesso gioco d’anticipo e se cominci a fare «quanto siete belli, che bella cravatta, ma sei proprio bello oggi» vedi che al contrario è fastidiosissima. Se lo fai tu quando sei in gruppo con altre donne e l’uomo è da solo è preso di sorpresa, ci vedono tutte insieme e pensa «oddio mio che vogliono» e non è più il sogno erotico ma dicono «adesso scappo»! Quindi, abbiamo cercato di cogliere questo, di cogliere anche la sicurezza oggettiva, ma anche la percezione della sicurezza: se io esco dall’ufficio e magari le strade laterali non sono adeguatamente illuminate, la mia percezione della mia sicurezza personale sarà più fragile e questo mi porterà a fare una scelta o a rimanere al lavoro fino a tardi stando comunque col pensiero su che strada devo fare, e ti dico che questa è una valutazione che le donne fanno finché non muoiono: cioè questa valutazione di quali strade fare io che ho quarantaquattro anni e sono grande, lo faccio tutt’ora, per capire come viviamo noi la nostra vita tutti i giorni. Quindi o rimango e sto con questo pensiero oppure non rimango perché sono preoccupata, e se mi fissano una riunione alle 19 dove viene deciso tutto io in questa riunione non ci sono. Ecco, diciamo che abbiamo cercato all’interno di questo mega algoritmo di cogliere sia le cose più banali come i benefit, i gender pay gap, le retribuzioni, la carriera e tutto il resto, che anche appunto questi aspetti un pochino più particolari. Le aziende adesso si stanno muovendo, non in massa, però devo dire questa è un po’ come la questione del congedo di paternità. Questo è un paese che ha una tradizione profondamente patriarcale, quindi purtroppo se vogliamo andare in una direzione invece di un miglioramento alcune cose non puoi prevedere che siano facoltative: un’autorità centrale si deve prendere la responsabilità di dire «ok, questo è quello che penso serva e lo rendiamo obbligatorio».
Joe Casini: “C’è sempre questo doppio binario: aspetto normativo e aspetto culturale. Mi ha colpito molto quando hai fatto l’esempio di scegliere quale strada prendere in quanto appunto io – maschio bianco etc. – questo aspetto di cui parlavi, quando me l’hanno raccontato le mie amiche la prima volta, oggettivamente non ci avevo mai pensato. Mi è capitato spesso di sentire questa cosa e ci metti un po’ da maschio a capirlo profondamente, quindi c’è quella parte di ascolto ed empatia. Parlare dal proprio punto di vista privilegiato è un esercizio troppo facile da fare, invece, mettersi nei panni degli altri, necessariamente ascoltare è lì che hai lo spazio per un cambiamento. La domanda che voglio fare a Isabella, visto che appunto tu ti occupi di digital e di comunicazione, dal punto vista culturale una cosa mi ha colpito molto in questi anni è che appunto si vedono queste diverse velocità sul quale viaggiano i media. Per esempio se prendi la televisione su questi temi, se prendi i social, se prendi i talk show, se prendi le serie TV, ormai si viaggia veramente a velocità molto diverse. Secondo te sul piano culturale si sta muovendo qualcosa? Io per esempio in questi anni ho avuto anche la possibilità, nel mio privato, di frequentare case famiglia, di fare delle attività in quella realtà e quindi avere contatto con adolescenti che non avendo io figli non è un’esperienza che faccio spesso, e lì pure vedi moltissimo com’è la “normalità” degli adolescenti nel dibattito, nel modo in cui parlano di certe questioni è totalmente diversa dallo stesso discorso fatto tra quarantenni. Si stanno creando delle velocità molto diverse da un punto di vista della comunicazione, della cultura, ma anche proprio dell’humus di insieme in cui si vive, o secondo te sono più stereotipi, cose di circostanza, ma poi in realtà il tema non ha grandi differenze a livello di media utilizzato, a livello di target.”
Isabella Borrelli: “Il punto non sono le velocità, il punto non sono i social, cioè non esistono velocità diverse, non sono mai esistite velocità diverse, esistono gli spazi di potere. La differenza è che i social media nel bene e nel male, con tutte le proprie limitazioni di non essere degli spazi neutrali, come non lo sono le strade, come sono le televisioni, come non lo sono i giornali, hanno offerto la possibilità alle categorie marginalizzate, che siano i giovani, che siano le persone LGBTQ+, che siano le donne, che siano le persone bipoc o quant’altro, di prendere autonomamente la parola e chi voleva poteva ascoltare. È questa la differenza, non è che i social media hanno una velocità diversa rispetto alla televisione, è che offrono degli spazi a persone diverse, ma non perché li regalano ma perché danno la possibilità di prenderseli. Cioè se fosse stato possibile creare un proprio palinsesto all’interno della televisione e chiunque avesse potuto creare un proprio talk Show o avere mezz’ora per fare un commento politico, anche la televisione avrebbe avuto questa velocità. Ci sono sempre state velocità diverse, era come andare a una riunione delle Black Panthers, oppure andare a vedere cosa trasmetteva la televisione: ovvio c’erano due velocità, due livelli di sofisticazione diverse, oppure andare in un congregazione universitaria e ascoltare cosa dicevano gli universitari quando si riunivano la sera e lo stesso vale per i social media, solamente c’è una caratteristica di medialità in cui tu puoi avere accesso a quello spazio mediale, a quello spazio di potere o altro da casa tua, sul telefono, sul divano, quindi non ci sono velocità diverse. Penso agli anni Sessanta, i giovani magari erano più avanti da un punto di vista culturale rispetto alla generazione precedente, quello che è cambiato è l’accesso parziale di gruppi marginalizzati a delle piattaforme che consentono di dare una voce e che uno possa organizzare sempre in maniera indipendente il proprio pubblico, cioè chiunque può unirsi a quel broadcasting. E questa cosa ha messo in difficoltà gli spazi tradizionali di potere perché nel momento in cui siamo il cosiddetto influencer, ovviamente termine che viene utilizzato in maniera sempre dispregiativa quando anche Martin Luther King era un influencer, cioè, voglio dire anche Gandhi lo era. Cosa vuol dire influenza? Una persona che viene seguita da delle persone la cui opinione è importante per un gruppo di persone, che influenza un flusso di opinione. Abbiamo sempre avuto i nostri influencer, magari non avevano Instagram però avevano altre cose. Delle persone vengono seguite da un numero di persone, da numeri che il potere tradizionale non ha più. I giornali se vendono duecentomila copie sono considerati dei giornali che hanno una tiratura di successo, mentre duecentomila follower su Instagram magari poi con un tasso di engagement ben più alto di un media tradizionale, ovviamente è una cosa che spaventa perché poi questa persona come la controlli? Poi ovviamente uno si inventa gli altri modi per controllare tutto quello che si può controllare, però quando c’è stata questa rivoluzione del potere di parola non è un caso che i cosiddetti influencer fossero tutte persone, se ci facciamo caso, parte di gruppi marginalizzati: donne, persone bipoc, persone LGBTQ+. Perché sono pochi gli influencer maschi eterosessuale cisgender bianchi? Perché hanno tutti gli altri spazi, perché non sentono il bisogno di dover colonizzare un altro spazio, non perché gli sia impedito perché chiunque può avere un proprio spazio online entro i limiti delle linee guida, ma non ne sentono il bisogno perché hanno tanti luoghi per esprimersi liberamente ed è questo il punto di riflessione dell’approccio. Il punto non è la velocità, il punto sono gli spazi di potere e quindi cercare di capire che viene richiesta una modifica degli spazi di potere. Questo poi cosa comporta? Il capitalismo non è che lo abbiamo inventato noi, se qualcuno offre un servizio che altrove non trovo e io voglio quel servizio, che sia gratuito, che sia premium, io vado da chi me lo offre, e quindi poi i giornali e le televisioni sono chiamati a fare i conti con questa cosa.”
Joe Casini: “Siamo in chiusura, ma prima di passare al momento delle domanda tra ospiti volevo fare l’ultima domanda a tutte e due: abbiamo parlato un po’ di gender gap, gender equality, abbiamo parlato un po’ di diversity culture, tra l’altro non so Isabella se la parola «diversity culture» ti piace o no?”
Isabella Borrelli: “La parola «diversity» mi piace più di «inclusion» La diversità per me è è la realtà, la realtà è diversa. Il tema dell’inclusione mi da veramente molto fastidio, penso che sia proprio un concetto sbagliato e il punto è sempre il potere. Cioè non è che dovrebbe essere una politica aziendale quella dell’inclusione, della serie «grazie padrone che ci includi, che esistiamo»!”
Joe Casini: E proprio su questo la domanda che volevo fare a tutte e due è: questi due argomenti di cui abbiamo parlato oggi secondo voi sono due punti di vista diversi sullo stesso fenomeno oppure sono tematiche distinte che hanno delle peculiarità diverse?”
Azzurra Rinaldi: “Secondo me è un tema di rappresentazione, siamo accomunate dal tema della rappresentazione, cioè dal fatto che il mondo non è fatto soltanto e per fortuna direi da uomini, anziani, bianchi, etero, cis e tutto il resto. C’è proprio un grande tema che noi in letteratura chiamiamo «mentoring hypothesis» cioè quando tu non vedi una persona in un posto automaticamente assumi che quello non sia un posto per te. Secondo me siamo proprio accomunati da questo tema di essere visti, poi tu dici «che ti frega», no non ci frega niente però noi dobbiamo stare nei posti, non ci vedono, non fa niente, ma comunque noi nei posti ci dobbiamo stare. Penso che siano forme di attivismo e di lotta che nella migliore delle tradizioni si sostengono e si intersecano. Poi ognuna di queste forme di attivismo in realtà ha una cosa che è proprio sua, ma forse questo è una cosa che noi stiamo sperimentando adesso per la prima volta nella Storia. Questo fatto di appoggiarci, ma veramente io lo vedo nella mia bolla, quello che siamo in grado di fare adesso noi donne nel corso di questi ultimi due anni è una cosa che non siamo mai riusciti a fare prima con questo impatto e con questa rapidità e velocità di azione. Ecco diciamo che l’aspetto molto positivo che vedo è che si capisce che il posto dove vogliamo andare è un posto dove vogliamo andare insieme, quindi una lotta non esclude l’altra.”
Isabella Borrelli: “È importante da una parte preservare i molteplici aspetti della lotta e dall’altra parte capire che si procede insieme. Io penso che quello che negli anni Cinquanta e Sessanta le femministe nere hanno chiamato «intersezionalità» della lotta sia un un concetto che non è reversibile ed è il centro di tutto. Anzi, l’intersezione comprende ovviamente anche l’uomo – inteso come genere maschile –all’interno. Non per forza aggiungo io, ma insomma io sono una radicale. È importante lavorare insieme perché bisogna cercare poi di non fare gli errori che hanno fatto magari i gruppi egemone nel passato, i quali a loro volta volevano operare per il meglio, perché non è che tutti prendono delle scelte pensando «ora mi rinchiudo in una pozza», però semplicemente non rappresentando la diversità. Quando non rappresenti la diversità, poi le scelte che prendi non possono essere di fatto giuste per tutte le persone che sono coinvolte. È questo il tema della diversità, ricordarsi che è veramente ideologico pensare che un gruppo così ristretto come quello eterosessuale cisgender maschio e bianco, possa sapere cosa è meglio per tutte quante le altre persone. Nella distopia chi è che definisce chi è diverso? Magari con un processo diverso in un mondo parallelo esiste un gruppo egemone che è fondato da persone con i capelli corti, donne, queer e lesbiche, e tutti gli altri sono diversi e quello lo standard. Per questo quando tu mi hai fatto la domanda di prima a me il concetto di inclusione mi fa veramente paura, lo trovo un concetto fascista. La parola «inclusione», la parola «accettazione», tutte queste parole sono veramente paurose. Questa è la realtà che noi oggi, in maniera parziale, stiamo andando a rappresentare, e la realtà è la diversità, il resto è ideologico. Non è un momento di inclusione, le persone esistono che siano visibili o che non siano visibili, il fatto che non siano visibili non rende meno diversificato quello di cui stiamo parlando. Che poi inclusione di chi? Da parte di chi? La parola inclusione presuppone che c’è un gruppo che stabilisce se degli altri gruppi possono essere inclusi, cioè messi dentro oppure no. Quindi, in generale io parlo di principio di «non esclusione», cioè, per esempio di comunicazione «non esclusiva», di spazi «non esclusivi», perché la non esclusione ha semanticamente un’idea diversa mentre quando noi parliamo di inclusione stiamo comunque, di base, dicendo che c’è un gruppo che decide se un altro gruppo può essere dentro, poi dentro cosa non si sa, sì o no.”
Joe Casini: “Io vi ringrazio sapevo che sarebbe stata una puntata ricca perché i contenuti sarebbero stati tanti, ma devo dire che per me è stata una delle puntate più belle, è stata una chiacchierata molto stimolante. Spero, tra l’altro, di poterla riprendere perchè sono tanti i temi che abbiamo sfiorato visto il tempo a disposizione, potevamo tranquillamente andare avanti ma spero che avremo modo di ripetere magari questa chiacchierata. A questo punto in conclusione della puntata, come vi anticipavo, cerchiamo di interconnettere le puntate, come i temi, gli uni con gli altri, facendo fare agli ospiti di ciascuna puntata una domanda agli ospiti successivi. Che vuol dire che voi avete una domanda dall’ospite della puntata precedente e potrete fare una domanda all’ospite della prossima puntata. Nella puntata precedente abbiamo chiacchierato con Andrea Pescino che si occupa di intelligenza artificiale, quindi, abbiamo parlato un po’ di come l’intelligenza artificiale sta cambiando, non solo i posti di lavoro e le attività che vengono fatte, ma anche il modo in cui viene prodotta la conoscenza. La domanda che vi ha lasciato Andrea parte da una riflessione che lui ha fatto, dicendo che può essere una grande opportunità parlando di diversità proprio perché tutto il know-how necessario per per alimentare l’intelligenza artificiale prende spunto da alcune facoltà come fisica e matematica, nelle quali per la sua esperienza le donne sono molte e danno molto più contributo rispetto a quanto può venire in altre facoltà, come per esempio può essere ingegneria. Andrea piuttosto sottolineava come il problema principale è chi governa gli investimenti, lì sono tutte aziende governate da maschi, bianchi ecc. Il tema di come rendere questa opportunità realmente diversa e non un ostacolo. La domanda che vi voleva fare è: dal vostro punto di vista parlando di intelligenza artificiale, ma in generale delle nuove professioni, c’è un problema di rappresentanza nei professionisti che si stanno formando o il tema è ancora una volta su classe dirigente?”
Isabella Borrelli: “Mi sorprende come domanda, io dal mio punto di vista, nel mio lavoro penso che eccome se si ha un tema di competenze! Si parla tantissimo di «glass ceiling», soffitto di cristallo, e banalmente tutti i discorsi che si fanno in tema di professioni Stem, però non solo, il tema è molto più ampio delle professioni Stem. Come alcune carriere professionali vengono indirizzati solamente alcuni generi oppure come alcune categorie di persone siano proprio scoraggiate nell’affrontare alcune carriere professionali. Per esempio le persone trans non riescono, perché qui non parliamo neanche di classe, parliamo proprio di una barriera fortissima, non riesco proprio ad accedere a delle professioni, ma non dico nemmeno manageriali, cioè proprio di medio livello. Non vengono assunte, vengono discriminate in maniera così forte che queste persone non riesco nemmeno a trovare un lavoro molto spesso, semplicemente per come appaiono alle altre persone. È un problema molto serio molto grave, gravissimo, ma proprio grande, enorme solamente che come spesso succede è un problema completamente invisibile. La discriminazione che si subisce sull’ambiente di lavoro per le persone, ma nemmeno per le persone LGBTQ+, per le persone che o lo sono apertamente, cioè che vivono la loro vita, banalmente perché poi essere apertamente cosa vuol dire? O che hanno una performatività di genere per un espressione di genere un appearance in qualche modo non congrua è veramente difficile, si viene scoraggiati fin dal liceo a fare determinate professioni che tu non puoi essere considerato la capa, il capo, il manager non puoi fare delle professioni di un certo tipo o magari le persone lgbtq+ scelgono spesso professioni poco visibili.”
Joe Casini: “È molto interessante, anche ricollegandosi a quello che diceva prima Azzurra… a questo punto, visto che siamo proprio in chiusura, chiedo ad Azzurra se vuole fare una domanda per l’ospite della prossima puntata che è Giulio Xhaet che si occupa di informazione, ma in particolare si occupa di formazione delle nuove professioni digitali, quindi ricollegandosi anche a quello che un po’ diceva Isabella anche questo è un tema un po’ legato alla rappresentanza. C’è una domanda Azzurra che vuoi lasciare a Giulio Xhaet?”
Azzurra Rinaldi: “Assolutamente. Ho visto che lui ha scritto questo libro sulle competenze in generale per le nuove professioni digitali, volevo chiedergli se ci sono e quali sono magari dei fattori che possono favorire in questo ambito la forza lavoro femminile.”
Joe Casini: “Grazie Azzurra per la domanda, la riporterò a Giulio che sicuramente ci darà un contributo per la chiacchierata. A questo punto io ringrazio Azzurra Rinaldi e Isabella Borrelli per aver partecipato. E diamo appuntamento alla prossima puntata del podcast tra due settimane che sarà appunto con Giulio Xhaet e parleremo di formazione e professioni digitali. Grazie di essere stati con noi, buona domenica a tutti.”