Con Rossella Pivanti di storie, di come raccontarle e di come le storie individuali possono raccontare quelle collettive, della società o di un’azienda. Tra aneddoti personali, antichi archetipi e nuovi media..
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti nella nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast nel quale parliamo della nuova complessità del mondo e in particolare di come i saperi in questo nuovo mondo complesso sono sempre più intrecciati tra loro. Oggi parliamo con Rossella Pivanti…”
Rossella Pivanti: “Ciao, grazie e benvenuti a chi ascolta.”
Joe Casini: “Rossella fa parte dell’Osservatorio storytelling ed è tra i fondatori della Podcast community Italia, quindi si occupa principalmente di podcast ma in generale di comunicazione e storytelling. Parleremo ovviamente di podcast, visto che sei anche autrice del libro «Branded podcast producer», ma parleremo in generale di comunicazione. Allora partiamo subito con le domande, nel nostro podcast apriamo di solito con quella che noi chiamiamo la «domanda semplice», ossia una domanda apparentemente semplice che poi si può andare a esplorare insieme per iniziare un po’ a tracciare la rotta di questa chiacchierata. Quando abbiamo cominciato a pensare un po’ a questa chiacchierata la prima cosa che mi è venuta in mente è la frase «video killed the radio star»: negli anni Ottanta siamo partiti un po’ da là, poi c’è stata tutta la rivoluzione di internet dove la radio, in generale l’audio, sembrava un media un po’ morente… invece oggi siamo qui a fare un podcast, quindi la domanda che ti volevo fare è: come mai continua a funzionare così tanto bene l’audio?”
Rossella Pivanti: “Io la domanda che ti rigirerei, perché io sono una nota rigiratrice di domande, è: ma perché dobbiamo sempre fare i corvi malefici? Allora un anno il blog è morto e la newsletter è morta, la radio è morta, i video sono morti… andate a portare sfiga a casa vostra! Ovviamente sto scherzando, però il discorso alla base è questo, cioè laddove ci sono pubblici diversi – e pubblici non è un termine generico, afferisce a un concetto di persone – quindi laddove ci sono persone diverse ognuna risponde secondo i propri sensi rispetto a quello che gli è più congeniale. Tipo io non sono assolutamente una persona visiva, ma zero, cioè io Pinterest lo guardo e non capisco cosa devo farci, io faccio i complimenti a chi ha delle bacheche Pinterest bellissime, però non è il mio media. Il video anche, la scrittura già di più, però ad esempio il mio medium è l’audio, quindi là dove ci sono persone diverse ci sono possibilità di esplorare mondi diversi, perché una volta c’era o solo la radio o solo la TV, neanche YouTube sto parlando proprio dei primi tempi, quindi quello c’era ma potendo scegliere tanti video diversi le persone semplicemente si suddividono. Se prima la radio era solo relativa al «qui e ora», quindi tu accendi la radio in quel momento e ti becchi quello che c’è su quella stazione in quel momento, ora invece la possibilità è completamente dissociata dal «qui e ora» quindi io posso ascoltare in maniera completamente asincrona. Noi stiamo registrando questa cosa in un momento X, ma le persone possono ascoltarla anche tra tre mesi e sembrerà sempre fresca, a meno che non sveliamo che giorno è oggi. Quindi in realtà non si ammazza niente.”
Joe Casini: “Quindi è una questione di accessibilità, cioè nel senso di trovare il canale giusto, il mezzo giusto per veicolare un contenuto rispetto al target, vuol dire anche renderlo a tutti gli effetti più accessibile per quel target, se ho ben capito.”
Rossella Pivanti: “Assolutamente sì, semplicemente si tratta di capire che se il pubblico prima al 100% era tutto sulla radio perché quello c’era oppure era al 100% sui giornali o al 100% sulla televisione perché magari c’era un media e basta. Ora il pubblico si divide ed è qui che rientra il concetto di nicchie, e le nicchie diventano importanti perché quantitativamente hai magari meno pubblico rispetto a quello che avevamo in passato su due o tre media, ma abbiamo comunque un pubblico molto più interessato perché si rivede molto di più, magari io mi vedo di più nel podcast e un po’ meno nella radio, nonostante io l’abbia fatta per tanti anni però per com’è il mio stile di vita oggi farei fatica a dire «alle 8:00 voglio ascoltare la trasmissione e se alle 8:30 mi connetto è troppo tardi». Ecco che non muore niente, semplicemente il pubblico si divide, poi se alla gente piace portare sfiga problemi loro!”
Joe Casini: “Hai toccato un po’ un punto fondamentale che è il tema delle nicchie sul quale torneremo ampiamente durante la chiacchierata. Prima ti volevo fare in realtà una domanda, visto che ti occupi di storytelling e te ne occupi in particolare per le imprese, quindi anche quell’ambito lo approfondiremo, ma parlando in generale di storytelling non mi ricordo in quale libro veniva definita la specie Sapiens come Homo Communicans, cioè ciò che caratterizza la nostra specie potrebbe essere più che il fatto di essere sapienti – il che è abbastanza opinabile da molti punti di vista – il bisogno che abbiamo di raccontare, di sentire, di ragionare in termini di storie. Quindi ancora oggi, forse soprattutto oggi, le storie sono uno strumento potentissimo, dai servizi streaming ai podcast, viviamo immersi in storie. La domanda che ti volevo fare è: come mai oggi siamo così immersi nelle storie?”
Rossella Pivanti: “Perché le storie raccontano mondi universali, cioè non pensiamo alla storia della singola azienda, la storia della singola azienda narrata così riguarda la singola azienda, cioè l’imprenditore o l’imprenditrice che a un certo punto decide di aprire questa impresa e dopo tanta fatica riesce ad emergere oppure fallisce del tutto. Se noi andiamo a prendere queste storie e le guardiamo da un punto di vista più alto, sostituiamo il nome dell’imprenditore o imprenditrice con il nostro nome, non è tanto diversa da una qualsiasi impresa che noi abbiamo creato la nostra vita. A me piace molto il fatto che il termine impresa in quanto società, brand sia lo stesso che usiamo per impresa, ovvero compiere un’impresa perché ad oggi aprire una società è un po’ un’impresa nel senso di portarla avanti ma è lo stesso identico percorso che fa qualsiasi essere umano, anche se non apre una società, ma vuole raggiungere un obiettivo, conquistare la donna o l’uomo dei propri sogni, qualsiasi cosa vogliamo fare ha quel tipo di narrazione. Quindi anche il racconto di un’impresa se riusciamo a vederlo ed è raccontato in modo che possa essere visto un pochino dall’alto diventa una storia universale perché cambia il nome, cambia leggermente l’obiettivo, ma il percorso è quello. Quindi le storie sono importanti perché permettono di rivedere una parte di noi negli altri, ti fanno una sorta di specchio, permettono di vedere gli altri all’interno di noi. Ci fanno sentire parte di un mondo dove «allora non sono solo io che ho fatto fatica a raggiungere quell’obiettivo, ma anche l’imprenditore o l’imprenditrice X nel suo obiettivo ha incontrato gli stessi problemi difficoltà che ho incontrato io!»”
Joe Casini: “Tra l’altro noi qui parliamo spessissimo di sistemi, reti che si interconnettono. Quello che dicevi tu è che c’è questa interconnessione tra quello che potrebbe essere un sistema simbolico, cioè di noi che parliamo, quindi siamo un’azienda o una persona, e in qualche modo raccontiamo una storia, cioè esprimiamo il nostro sistema simbolico e nella misura in cui questo si incontra poi con il sistema simbolico di chi ascolta, abbiamo un canale che diventa terribilmente potente. Lavorando tu con le aziende ma in generale nel momento in cui devo intenzionalmente, a tavolino, sedermi e decidere di aprire bocca e raccontare una storia, raccontare me stesso, c’è anche un processo bellissimo di definizione della nostra identità. Chi sono? A chi voglio parlare? Di cosa voglio parlare? In che modo voglio parlare? Questo processo creativo come avviene?”
Rossella Pivanti: “Ti faccio un esempio pratico: io il primissimo podcast che ho iniziato quando ancora non si capiva bene cosa fosse il podcast, non mi stavo rendendo conto, non era un processo scientifico «ora faccio un podcast», era piuttosto «sento questa necessità di comunicare». Venivo dalla radio, venivo dalla sceneggiatura, avevo uno studio registrazione quindi per me il mettere assieme suoni, storie, racconti e montarli in un certo modo per me aveva una logica. Lo stesso discorso lo facevamo prima con Pinterest, per me non ha una logica fare una bacheca Pinterest perché non è il mio modo di esprimermi. Quindi che cosa faccio? Io una sera era un sabato sera fine 2017 inizio 2018, quindi digitalmente parlando la preistoria, non avevo neanche il microfono in casa perché i microfoni ce li avevo in studio e ho detto «senti apro il computer e faccio questa registrazione» – perché quello era – e racconto quella che è la mia di storia, perché io in quello sono esperta… poi negli anni uno diventa esperto di tante cose, ma la cosa di cui siamo più esperti è la nostra storia. Non mi sono posta il problema «Ah! Ma a chi interesserà?» perché in quel momento era una mia esigenza narrativa, cioè se interessava a tre persone bene, se interessava a cinquanta bene uguale, ma ingenuamente ho fatto quello che hanno fatto tutti i media ai loro esordi. Pensiamo banalmente a MySpace che era uno spazio, diciamolo per chi è più giovane, in cui fondamentalmente uno raccontava il proprio diario, era «my space», il mio spazio. Facebook uguale, cioè che cosa stai pensando, quindi ti spinge a fare un microblogging, Twitter uguale, poi è andato più verso le notizie, le storie di Instagram sono «guarda i cacchi miei, ti do uno sguardo dentro la mia vita, la mia stanzetta e casa mia». Io ho fatto la stessa cosa ingenuamente, quindi semplicemente mi sono posizionata con un messaggio che era esattamente lo stesso di tutti i media al loro inizio, io mi sono posizionata all’inizio di un media con quel tipo di linguaggio ed è stato, posso dirti, dirompente. Non soltanto perché non c’era qualcosa di simile in italiano al tempo, è stato dirompente l’effetto sulle persone. Io mi sono detta vabbè «questo lo ascolteranno solo le donne» anche solo per empatia perché sono una donna e si rivedono di più, oppure i «marpioni», quelli che ci vogliono un po’ provare perché senti questa ragazza cosa racconta così quando ti capita di uscire con una sai già tutto. Io aprivo il microfono e ti raccontavo, nomi e cognomi, quello che mi era successo quella settimana, con la consapevolezza «vabbè ma chi mi si caga» e invece quella roba lì mi ha stravolto la vita. Io faccio questo mestiere grazie a quello, la gente ci si rivedeva, maschi, femmine, anche se con storie molto diverse. Parlo ad un certo punto magari della perdita di un genitore quindi non è che tutti, fortunatamente, hanno subito questo ma tanti mi scrivevano «anch’io però ho perso uno zio, una zia, un amico, un’amica, un cane, un gatto» e si rivedevano in quella storia. Non era il problema che ci fosse il mio nome sopra, quella era diventata la storia di tutti e tutte.”
Joe Casini: “Quindi eri partita 100% autentica, però in qualche modo poi ciò di cui parlavi chiaramente ti creava anche dei sotto audience, un pubblico più ampio che ti seguiva per alcuni argomenti e chi magari si attivava su altre questioni. Tu sei partita 100% autentica, quindi appunto parlando di te stessa in maniera molto spontanea, torniamo sempre sul caso aziendale credo ci sia una dimensione autentica ineluttabile, cioè non si può raccontare qualcosa che in qualche modo non ci rispecchia… però ci si pone anche il problema di «a chi sto parlando» e quindi andare incontro alle aspettative del pubblico. La domanda che ti volevo fare è: quanto è il pubblico che trova noi? Pensiamo ad un’azienda, l’importante è essere autentico poi, in qualche modo, il pubblico ti viene dietro. Oppure quanto c’è un equilibrio tra il raccontare semplicemente noi stessi e invece cercare di raccontare stessi in funzione di chi ascolta?”
Rossella Pivanti: “Allora io in funzione di ascolta me lo pongo poco perché io sono della parrocchia del «chi si somiglia si piglia« e del «grazie a Dio non dobbiamo piacere a tutti», quindi io quello che cerco di spiegare alle aziende con cui lavoro è che non deve piacere a tutti e se piace a tutti secondo me abbiamo forse un problema, cioè siamo stati troppo generici, non siamo arrivati a nessuno. Non dico che dobbiamo avere gli hater, per carità, non dico per forza di dover polarizzare il pubblico, però se noi abbiamo ritagliato una nicchia chiara, secondo me siamo arrivati con molto più impatto a X persone rispetto a raggiungerne X mila ma rimanere là così. Quindi quello che faccio io con le aziende è cercare di raccontare l’azienda attraverso le persone, il che non vuol dire che per forza devo far parlare i dipendenti perché i dipendenti sono in quella posizione strana per cui sì, parlano di loro stessi ma si sentono il fucile puntato alla schiena. Quello che di solito faccio è raccontare il valore dell’azienda tramite le persone comuni, ti faccio un esempio altrimenti non si capisce: un’azienda che fa auto elettriche, questo è stato il primo lavoro che ho fatto per Mini BMW, l’azienda produce auto, in particolare in quel caso auto elettriche e potevamo parlare di quanto l’auto elettrica fosse utile per la sostenibilità. Era il 2019, quindi sostenibilità era una roba ancora nuova, io ho scelto di mettere da parte l’azienda e di far parlare le persone. Quindi sono andata in giro per l’Italia, proprio fisicamente, a cercare storie di persone che avessero superato una qualche loro paura perché al tempo c’era il problema di «ma chi me lo fa fare di acquistare un’auto elettrica?». Adesso è già più sdoganato, ma all’epoca la gente aveva paura, non si fidava, quindi c’era un problema di paure prima di dirti «compra questa qua e non comprare quella del competitors». Metti da parte l’azienda, lavora sulle paure delle persone, dimostra che ci sono persone là fuori che hanno superato paure, che le abbiamo superato tutti. Ad esempio c’era questo modello di fama internazionale che non si era mai trovato nella condizione di dover conquistare una ragazza perché fondamentalmente gli cascavano un po’ ai piedi, e quindi lui per la prima volta a trent’anni si è dovuto trovare a conquistare una ragazza e questa qua non se lo filava di striscio perché i suoi genitori l’avevano indottrinata dicendole «ah no, quelli troppo belli sono vuoti». Però ci mettiamo tutti nei panni di quando abbiamo dovuto fare il primo passo verso una ragazza o ragazzo che ci piaceva… ecco lui era stato portato all’estremo, si presenta con Fabrizio Corona e questa qua scappa via perché viene da una famiglia italo-indiana, conservatrice. Quindi ho deciso di raccontare queste storie, poi alla fine vedi come questa persona ha superato questa paura, adesso si guarda indietro ci ridiamo tutti però al tempo per lui era un problema giustamente. Ecco tu adesso hai questo problema, questa paura rispetto all’adozione dell’auto elettrica, cioè la paura di fare il primo passo, probabilmente quando l’avrei fatto ti guarderai indietro e dici «vabbè ma di che avevo paura?»”
Joe Casini: “Stiamo parlando molto di podcast aziendale, sia perché appunto lo fai di professione sia perché gran parte di chi ci ascolta sono imprenditori o manager… mi piace che parlando di aziende parliamo di paure, di emozioni. Nel momento in cui parla un’azienda sta sempre parlando un essere umano a un essere umano, quindi poi alla fine comunicazione che sostanzialmente, come sempre, si muove su un registro emotivo. La domanda che ti volevo fare è: la situazione si sta in questi anni evolvendo, complice anche questi strumenti? Perché chiaramente il podcast ipertecnico di trenta minuti interessa a una piccola parte, quasi a nessuno… che relazione c’è tra questi nuovi strumenti e gli argomenti che poi utilizziamo?”
Rossella Pivanti: “Questi strumenti li obbligano a umanizzarsi, cioè io ad oggi se sento un podcast, ma anche se leggo un ADV di Google e leggo «azienda leader del settore» mi chiedo «ma di che settore?», azienda leader della nicchia per carità, ma azienda leader di settore mi viene da ridere.”
Joe Casini: “Di solito uno se lo dice da solo in quei casi.”
Rossella Pivanti: “Esatto. Quel tipo di comunicazione lì ad oggi non sta più in piedi, cioè se può stare in piedi su due righe di un ADV di Google che te lo paghi tu, mezzi come questo, soprattutto come il podcast, che ti danno una quantità di tempo di narrazione ampia perché uno spot pubblicitario in radio c’era la gara a due secondi, stavamo veramente a centellinare il secondo perché la radio vende tempo, Netflix vende tempo, tutti vendono tempo. Il podcast il tempo se lo prende fondamentalmente, perché il podcast si accompagna ad altre attività, non è esclusivo. Cioè Netflix o guardo Netflix o faccio altro, posso lavare i piatti mentre guardo Netflix, ma la mia attenzione è condivisa, invece posso benissimo lavare i piatti mentre ascolto un podcast perché mi coinvolge meno sensi e meno attenzione. Quindi il fatto che non rubi tempo, ma si accompagni fa sì che la gente lo ascolti per tanto tanto tempo e questo tanto tempo non sta in piedi in un messaggio tipo «azienda leader di settore dal 1949, produciamo 750 tipi di scarpe in pelle umana»… chi se ne frega! Altra cosa importante è che è l’ascoltatore che l’ha scelto, la pubblicità ti arriva tipo mazzata tra capo e collo, te la puppi e dici «vabbè la radio gratis mi puppo la pubblicità, però che noia». Il podcast l’ho scelto io, se dopo dieci secondi mi hai rotto io, senza ombra di senso di colpa, ti cancello, sparisci, blocca, via. È lì che le aziende devono mettere in campo l’essere umano, perché non mi puoi sparare vendi minuti di «io azienda leader di settore bla bla bla».”
Joe Casini: “Questo tema della scelta è bellissimo perché poi vuol dire che le relazioni che si vanno ad instaurare sono relazioni che hanno un valore pazzesco per l’azienda perché sono basate su delle scelte, sulla libertà. Allora ci stiamo avvicinando alla parte delle domande, nel nostro podcast le ultime domande sono lasciate agli ospiti per gli ospiti, prima di arrivare c’è un’ultima curiosità che volevo chiederti. Questi strumenti narrativi sono anche, secondo me, strumenti straordinariamente interessanti da utilizzare all’interno delle aziende, cioè nel momento in cui i dipendenti devono definire un podcast, produrre i contenuti, selezionare come raccontare la propria azienda, per parlare anche tra di loro, penso soprattutto alle grandissime aziende, è uno strumento che facilita anche la comunicazione all’interno dell’azienda oltre che verso l’esterno?”
Rossella Pivanti: “Assolutamente sì, ci sono aziende giganti che sono state capacissime negli anni di strutturarsi benissimo ma hanno perso la connessione tra le maglie dell’azienda. Ci sono magari dei reparti che funzionano da Dio ma che non hanno l’idea assoluta di cosa fanno gli altri, sono dislocati geograficamente in maniera scomoda, o perché banalmente tutto il loro tempo è incentrato a pensare al proprio reparto, proprio ufficio e non sanno cosa fanno gli altri. Quindi il podcast per la comunicazione interna sì, è un discorso sia di conosciamoci, leghiamo, creiamo un gruppo o dei piccoli sottogruppi che è già meglio di tante persone singole, come spesso capita in tanti reparti singoli, me è un discorso anche di veicolare le informazioni di essere tutti aggiornati, perché è brutto quando alcune reparti sanno le cose prima, gli altri le imparano dopo poi parte la dietrologia che non è necessaria ed è anche un discorso di aggiornamento e formazione. Io ho lavorato con una società che aveva un grande reparto IT e gli IT sappiamo essere persone molto brave e preparate, sempre davanti al computer, però non è che proprio eccellono nella comunicazione… mandavano una newsletter che arrivava via email e che sì era letta, non era letta, aperta, non era aperta, c’erano 27.000 link che ti portavano fuori, era un po’ complessa. L’abbiamo portata anche in versione audio e l’abbiamo resa un po’ più giocosa, un pochino più anche scherzosa e la gente se l’ascoltava volentieri. Questa riflessione era nata anche dal punto di vista della tipologia di persone che lavoravano in quella azienda perché – uno non ci crederà mai – ma i developer e chi lavora nell’ambito software ascolta un botto di podcast e quindi ho detto «mettiamola in versione audio» ed è piaciuto un botto! Abbiamo tracciato quanti ascolti e per quanto tempo, poi spesso dopo rientravano nella newsletter e andavano a vedere solo gli approfondimenti dei link che interessavano a loro perché l’avevano sentito raccontato. Quello è un bell’utilizzo.”
Joe Casini: “Prima abbiamo parlato di paure e adesso mi piace che stiamo chiudendo parlando di divertimento e che poi alla fine – soprattutto in questo periodo in cui si parla di quitting economy, insomma ben venga anche divertirsi – scopri che hai una persona all’interno che è simpatica, travolgente, su questa roba funziona molto, ti aiuta proprio a veicolare il tuo messaggio.”
Rossella Pivanti: “Allora ti racconto questa perché mi ha fatto capire tante cose. Io ho uno studio di registrazione che è anche aperto al pubblico. Venne una signora, mi guardò e mi disse «ma perché sei felice?». Era tipo lunedì sera, noi facciamo dalle due di pomeriggio a mezzanotte, e io a mezzanotte ero felice e le ho detto «ma perché non dovrei esserlo?» e mi rispose «perché il lavoro deve fare schifo, ma a te non fa un po’ schifo il tuo lavoro? Tu lo devi un po’ schifare il lavoro sennò come fai ad aspettare che arrivi il sabato e la domenica». Quindi c’è questa idea che lavoro deve fare schifo e va a finire che i podcast aziendali tendono a fare un po’ schifo!”
Joe Casini: “Invece se sono divertenti e ci si appassiona, si metacomunica, cioè ci si appassiona a quello che si racconta, all’azienda, alla vita aziendale.”
Rossella Pivanti: “Io non andrei mai a lavorare nell’azienda della signora perché se a lei fa schifo perchè deve piacere a me!”
Joe Casini: “Allora siamo arrivati Rossella al momento delle domande tra ospiti, quindi cominciamo. La domanda che ti hanno lasciato gli ospiti della puntata precedente, che sono stati Antonella Questa, attrice, scrittrice e regista teatrale e Antonello Giannelli, presidente di ANP che è l’associazione dei dirigenti scolastici. Con loro abbiamo parlato di educazione, di formazione. Quando gli ho detto che in questa puntata avremo parlato di comunicazione, in particolare di podcast con un taglio soprattutto alle aziende, devo dire che si sono attivati tutti e due moltissimo su questa cosa e la domanda che ti hanno fatto è: secondo te qual è l’ingrediente fondamentale per far funzionare un brand podcast? In particolare individuarlo, nel momento in cui c’è bisogno, lo dicevamo, di definire la propria identità, come si identifica? Se c’è un ingrediente fondamentale e quale, per la tua esperienza, è questo ingrediente.”
Rossella Pivanti: “L’empatia e l’umanità. Cioè tu puoi essere l’azienda veramente leader di settore ma non perché lo scrivi tu nella tua ADV pagata da te, ma perché veramente sei azienda leader di settore. Quindi un discorso di empatia, un discorso di umanità, un discorso alla pari perché devi smettere di pensarlo come un contenuto che arriva dall’alto e che il povero ascoltatore o ascoltatrice se lo puppa perché non ha scelta: l’ascoltatore ha molta più scelta di quella che abbiamo noi produttori di podcast, quindi mettersi nei suoi panni e capire quelli che sono, oltre ai nostri bisogni che sono vendere vendere vendere vendere, capire anche quali sono i suoi bisogni, quindi un discorso proprio empatico dove l’ascoltatore viene incluso nella comunicazione già nel momento della costruzione del messaggio e non partire dall’argomento. Mi arrivano delle mail che sono «Ciao vorremmo fare un podcast dal titolo X, in copertina ci mettiamo un canguro e l’argomento è questo»… e che ti devo dire io? Fallo, il problema è che non funzionerà! Parti dal valore, decliniamo quel valore in un argomento, in una serie di argomenti e sottotemi. Il problema è il modo di lavorare, partono sempre da quello che per me è la fine. Delle volte ho consegnato dei podcast che fino al giorno prima non avevamo deciso il titolo. Il titolo è importante assolutamente, ma se c’è un bel titolo e poi non è costruito bene poi ti chiedono «ma come mai lo cliccano ma non lo ascoltano?»… chissà come mai, perché nel titolo c’è scritto «tette» ma non parli di tette?”
Joe Casini: “Quella cosa autoreferenziale che dicevi prima, cioè la gente ha deciso di sentirti parlare di quella roba lì.”
Rossella Pivanti: “Ma chi me lo fa fare a me di sentire te che mi parli di quella roba lì. Io ascolto podcast di argomenti di cui non me ne potrebbe fregare la stra-fava di niente ma mi rivedo nei valori della persona che conduce quel podcast, o perché mi fa divertire, altre motivazioni.”
Joe Casini: “Parlando in termini di comunicazione c’è la parte verbale e poi la semantica che è fatta in gran parte dal fatto che se chi parla mi trasmette dei significati, certe emozioni, allora lo contestualizzo in un certo modo… non è tanto ciò di cui mi parli ma tutto il contesto, come me ne parli e chi porti a parlare di quell’argomento. Questo è sicuramente uno spunto interessante, ringraziamo Antonella e Antonello per averci dato questo spunto! A questo punto però tocca a te Rossella. Nella prossima puntata avremo come ospite Alberto Puliafito che è giornalista, e fino a poco tempo fa formatore per Google per i giornalisti. Parleremo di formazione e informazione nel digitale, in particolare di un tema molto interessante – che tra l’altro ho scoperto grazie a lui – che è l’ecologia digitale. Si è parlato tantissimo in questi due anni di infodemia, di overload di informazione, invece con lui parleremo proprio al contrario di andare ad applicare i principi dell’ecologia al mondo del digitale, quindi cercare di ottimizzare, utilizzare meno risorse, meno tempo e meno attenzione per focalizzarci su questioni più di qualità o messaggi più messi a fuoco. Quindi, a proposito di questi temi e della chiacchierata che faremo con Alberto, hai una domanda che potremmo utilizzare come spunto nella prossima puntata?”
Rossella Pivanti:” Sì, io vorrei parlare di come la creazione di contenuti digitali – che per noi sono fisicamente immateriali, perché se scriviamo su un quaderno ci rendiamo conto che abbiamo usato un tot di fogli di carta che si ripercuote su un tot di alberi abbattuti o comunque ha un impatto ambientale fisico diretto – da quando si è dematerializzata la produzione di contenuti ed il costo della replicabilità è zero, però questo non vuole che non abbia comunque un impatto ambientale. Mi piacerebbe scoprire qual è l’impatto fisco della quantità di contenuti digitali che buttiamo in rete, che poi si traducono in server che vengono occupati e questi server hanno poi una struttura fisica. Quindi, produrre contenuti digitali ha veramente un impatto zero sull’ambiente o possiamo scoprire che c’è comunque una correlazione diretta tra impatto fisico sull’ambiente e la creazione di contenuti digitali anche se per noi sono completamente immateriali, ma che però in realtà occupano un qualche spazio fisico da qualche parte in un qualche server in Groenlandia?”
Joe Casini: “Bellissimo spunto, grazie. A questo punto la puntata per oggi è finita. Quindi intanto Rossella ti ringrazio terribilmente per essere stata qui con noi.”
Rossella Pivanti: “Terribilmente grazie anche a te!”
Joe Casini: “Ci aggiorniamo con Mondo Complesso tra due settimane con la prossima puntata del podcast che sarà con Alberto Puliafito. Buona domenica a tutti.”