Con l’attrice e regista teatrale Antonella Questa, e il presidente dell’ANP Antonello Giannelli, parliamo di scuola, educazione e di come formiamo le future generazioni.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti in una nuova puntata del nostro podcast Mondo Complesso, il podcast nel quale parliamo di complessità e di come questa nuova complessità – se così si può dire – pervade il nostro mondo e di come questo poi ci porta a dover integrare tra loro diversi saperi per avere gli strumenti per poter affrontare questo mondo sempre più complesso. La puntata di oggi è particolarmente ricca in quanto avremo ben due ospiti che sono Antonella Questa e Antonello Giannelli, quindi per prima cosa benvenuti! Antonella Questa è attrice e autrice teatrale dei vari temi di cui si è occupata in particolare spesso di è affrontato anche il tema della «pedagogia nera», mentre Antonello Giannelli è presidente nazionale di ANP, l’associazione che rappresenta i dirigenti scolastici ed è ovviamente molto attento e segue da vicino tutti i temi che riguardano la scuola. La puntata di oggi si prevede bella ricca e divertente! Per cominciare abbiamo quella che noi definiamo la «domanda semplice», la domanda apripista che da la possibilità agli ospiti di fare il primo passo e quindi, in qualche modo, tracciare un po’ la direzione che prenderà poi la nostra chiacchierata. Questa prima domanda la faccio a tutte e due, quindi poi chi vuole cominciare risponde: cosa vuol dire secondo voi educare? Cos’è l’educazione?”
Antonella Questa: “Mi sento un po’ chiamata in causa per come mi hai presentato, perché porto in scena uno spettacolo dal titolo «Infanzia felice» che racconta e parla proprio del tema educazione. L’educazione per me è senz’altro aiutare a portare nel mondo il bambino o la bambina, aiutarlo a districarsi nel mondo, accompagnarlo. L’educazione per me è sinonimo di accompagnamento.”
Joe Casini: “Grazie Antonella. Antonello per te cos’è l’educazione? Cosa vuol dire educare?”
Antonello Giannelli: “Noi del mondo della scuola non possiamo che partire dall’etimologia «educere». Educere significa «tirar fuori», quindi far venire fuori la persona che è in una sorta di bozzolo, quindi aiutare questa sorta di bruco a diventare farfalla, se così vogliamo dirla. Dunque la scuola e l’educazione, che è ciò di cui si occupa la scuola, ha il compito di accompagnare i nostri simili da quando sono piccoli fino a quando arrivano a 18/19 anni e poi si continua con l’università, perché la specie umana ha bisogno di un training molto duro per essere messa in condizione di contribuire effettivamente alla vita collettiva.
Da un lato non stupisce che serve un sistema dedicato come la scuola e dall’altro è una peculiarità della nostra specie, noi di fatto non possiamo stare senza scuola, io penso che l’educazione sia un’attività fondamentale per il genere umano perché serve a tramandare: senza educazione non ci può essere un progresso e probabilmente il genere umano sarebbe addirittura destinato a estinguersi.”
Joe Casini: “Abbiamo già messa a fuoco il tema, c’è sicuramente una dimensione sociale – ne parleremo – c’è anche però una dimensione strettamente individuale nel senso che poi bisogna sempre prendere in considerazione il bambino, ma in generale, la persona che abbiamo davanti. Ecco, su questo la domanda che faccio ad Antonella parlando appunto di educazione: ho letto una cosa che hai detto più volte che mi ha colpito, tu dici fondamentalmente che i bambini cattivi non esistono, in qualche modo ci si diventa, cosa intendi?”
Antonella Questa: “Beh vedo già Antonello che intuisce perché poi lui nel mondo della scuola lo può toccare con mano ogni giorno. Diciamo che i bambini cattivi non esistono, lo diventano, non è una cosa che ho detto io per prima, ma che ho scoperto nello studiare i testi, anche nell’intervistare maestre, presidi, professori ma anche genitori. Perché lo diventano? E che cos’è la pedagogia nera? Innanzitutto perché abbiamo appena accennato ma magari chi ci ascolta non sa di cosa si tratti. Pedagogia nera è il titolo del libro di Katharina Rutschky, una psicologa e sociologa austriaca, che ha pubblicato nel 1977 e che è arrivato in Italia solo nel 2016 grazie al professor Perticari dell’Università di Bergamo che ha fatto poi tra l’altro una bellissima introduzione. È un librone, un libro di 800 pagine edito da Mimesis – io do tutte queste informazioni ma ci tengo come sempre a dire non ci guadagno nulla, io faccio proprio veramente a fine divulgativo! È un libro incredibile, Rutschky ha messo insieme alcuni estratti dei saggi dei libri più importanti apparsi tra la fine del Seicento e i primi del Settecento fino ai primi del Novecento, per l’educazione dei bambini e tutti trasudano violenza educativa da un punto di vista psicologico oppure fisico, ma sotto un sacco di aspetti. Bisogna spaventare i bambini, bisogna lasciarli al freddo e alla fame, le coccole mai perché – poi ovviamente è storicamente spiegato – c’è tutto il periodo dell’illuminismo che ha portato a questo. Per tornare ai nostri giorni, poi io sono appunto solo un attrice e autrice io condivido ovviamente le mie fonti, quello che ho scoperto, mi sono resa conto che i bambini cattivi non esistono ma lo diventano, e lo diventano quando non vengono ascoltati, accolti nei loro bisogni, rispettati, amati. Il dire «il bambino sta facendo un capriccio» già la dice lunga, perché il bambino in realtà sta esprimendo un bisogno a suo modo. Cosa succede? Il fatto di impedire l’ascolto dei bisogni del bambino crea comunque una frustrazione che si trasforma in rabbia. Questa rabbia repressa poi viene fuori, ma al giorno d’oggi in maniera magari stupida quando ci prendono i cinque minuti e urliamo magari contro quello che ci ha attraversato davanti mentre passavamo con la macchina o in fila alle poste. Nei casi più gravi spiega benissimo Miller, abbiamo Christiane F. nel film «Noi ragazzi dello zoo di Berlino», quindi l’autodistruttività della persona e andiamo verso la droga, suicidio, incidenti, eccetera… oppure la distruttività e abbiamo Adolf Hitler, ma ovviamente questi sono i due estremi. E allora ecco questo io lo racconto soprattutto a noi adulti, a noi ex-bambini, perché per me sono gli ex-bambini che devono essere aiutati per dare un’infanzia felice ai bambini.”
Joe Casini: “Antonello a parte che pedagogia è una parola che si usa sempre di meno, ma vedendola da un punto di vista sociale, la scuola è anche un tema che in qualche modo mette a confronto due grandi sistemi: il sistema scolastico e quello familiare. Quindi anche qui com’è secondo te la situazione? E come magari si è evoluta, sempre se secondo te si è evoluta, in questi ultimi anni?”
Antonello Giannelli: “Ma dunque si, si è evoluta sicuramente e credo che questa evoluzione sia andata abbastanza avanti al punto da generare una situazione o dei comportamenti che non sono più quelli che ci si aspettava un tempo. La dico in altro modo. Tanto per cominciare la famiglia come l’abbiamo conosciuta – o forse come ce la siamo raccontata qualche decennio fa – sicuramente non esiste più, o meglio esiste anche quella famiglia, la famiglia tradizionale con mamma e papà, magari la mamma casalinga che il pomeriggio sta a casa e fa fare i compiti, però è un numero sempre più limitato di famiglie mentre invece crescono le famiglie di altro genere, magari uni-genitoriali, magari famiglie che non seguono i figli, non hanno il tempo, non hanno la cultura, non pensano che sia quello il ruolo dei genitori e quindi quando hanno tempo libero vanno a giocare a tennis, non stanno con i figli. Questo fa sì che al giorno d’oggi i ragazzi siano molto più abbandonati a se stessi di quanto lo erano un tempo. Contemporaneamente la scuola si è man mano impadronita di aree presidiate in precedenza dalla famiglia. Insomma, tanto per dirla, nella tradizione scolastica italiana c’è questa idea che la scuola deve pensare all’istruzione, la famiglia deve pensare all’educazione. Ecco, questo assunto che un tempo in qualche modo reggeva, oggi non regge assolutamente più: è la scuola che deve educare. Pensiamo ad esempio ai ragazzi che vanno a scuola vestiti in modo balneare, un tempo si diceva «ma come? non si può andare a scuola così i tuoi genitori ti fanno uscire così?» ma i ragazzi oggi escono senza neanche incontrare i genitori, ognuno vive per conto suo, vede la televisione per conto suo, i ragazzi vivono sul cellulare, non hanno quasi rapporti con i genitori. Sì, vivono in una casa sotto lo stesso tetto e ogni tanto scambieranno pure qualche parola, ma vivono molto più da estranei che un tempo e quindi non c’è questa osmosi di valori da parte dei genitori verso i figli, o c’è molto meno. La scuola invece, in qualche modo dovrebbe assolvere in questi compiti e in qualche modo lo fa, però c’è chi pensa che non lo debba fare. C’è chi vive in modo infastidito questa realtà, c’è chi dice «no, ma a scuola dobbiamo insegnare la matematica, quindi non mi interessa se il ragazzo è irrispettoso del suo simile, non sono problemi miei»… non è così, a scuola con l’insegnamento di educazione civica questa cosa è chiaramente affermata, tanto è vero che la convivenza civile, per dire così, fa parte a pieno titolo dell’insegnamento scolastico, che poi è un valore costituzionale. Quindi noi oggi abbiamo un sistema scolastico che dovrebbe fare tutte queste cose, però non è sempre facile farlo perché molti docenti e anche molte famiglie in realtà vorrebbero che la scuola si continuasse ad occupare soltanto dell’istruzione, mentre oggi fa molto di più, e questo con la pandemia si è visto.”
Joe Casini: “Ovviamente sulla pandemia vi farò una domanda alla fine perché venite da due settori che l’hanno veramente vissuta da vicino. Il podcast si chiama Mondo Complesso perché ora siamo in un periodo più complesso. In un mondo più semplice di qualche decennio fa, effettivamente era anche più semplice negoziare i ruoli sociali e le aspettative e mentre parlavi mi è venuta in mente questa cosa, un po’ quello che tu raccontavi che sono appunto le aspettative sul ruolo dei docenti, quindi cosa devono e non devono dire, su cosa devono o non devono esprimere, prendere posizione, intervenire. Mi ricorda poi spesso anche, Antonella, quello che ogni tanto capita anche con gli artisti. Cioè magari un artista, un cantante, si mette a parlare di politica, di società, di attualità e gli dicono «no, tu devi solo cantare».”
Antonella Questa: “Sì, è vero si dice «devi far divertire, devi solo cantare», ma in realtà è falso, basti pensare al ruolo del teatro. Il teatro ad esempio è una forma di arte che non morirà mai finché ci saranno uomini e donne sulla Terra, perché? Perché basta una persona che si mette a raccontare ad altre persone qualcosa che quello è già teatro. Il teatro racconta poi di noi e quindi abbiamo bisogno delle storie, anche di identificarci ed è inevitabile che il teatro sia politico, anche quando è un teatro di divertissement puro e semplice, perché comunque racconta di noi, racconta delle situazioni, dei rapporti umani. Per questo il compartimentare non ha molto senso ed è un po’ riduttivo, anche proprio in virtù del fatto come dicevi del fatto che il mondo in cui ci troviamo è un mondo sempre più complesso. Internet ha portato come si dice spesso la «piazza virtuale», che era un tempo la piazza del baretto. Quindi un conto era se andavi a San Terenzo, dove ci sono tre persone, ce la diciamo tra di noi finisce lì: a La Spezia non lo sanno, a Sarzano nemmeno, mentre con Internet è tutto molto più vasto. La connessione tra umani è addirittura eccessiva, perché abbiamo un sacco di cose a cui stare dietro, siamo continuamente bombardati. Quello che diceva Antonello era molto interessante, il fatto dei ragazzi che escono di casa che quasi non li vedono i genitori mi è stato raccontato anche da delle maestre. Tanti bambini che magari arrivano con il pigiama sotto i pantaloni, la cartella vuota, ma perché gli stessi genitori sono travolti da un sistema-società che gli dice «te devi andare a lavorare e fare degli orari incredibili». Lavorano come dei pazzi e dei disgraziati, quindi veramente il mondo moderno non ha minimamente aiutato le relazioni umane, anzi. Ed è lì che poi si fonda la pedagogia nera, sull’ascolto, sull’empatia, sulle relazione e quindi facciamo veramente un po’ come possiamo.”
Joe Casini: “Parlando di compressione nell’educazione tu prima Antonello parlavi appunto del cosiddetti programmi scolastici. Una cosa su cui ti ho negli anni più volte sentito tornare è il fatto di fare queste divisioni rigide tra materie, anche il ruolo stesso forse delle materie. Ci sono degli esperimenti – penso in primis quello più famoso ovvero quello finlandese – ci sono dei sistemi scolastici che stanno ripensando molto profondamente la struttura e l’organizzazione della didattica e da questo punto di vista forse abbiamo delle difficoltà ad aggiornare, ma forse anche un po’ a rivoluzionare, la didattica?”
Antonello Giannelli: “Certamente le prassi didattiche andrebbero molto cambiate perché, soprattutto in Italia, noi abbiamo la tradizione della scuola gentiliana e quindi, nonostante da allora si sono susseguite molte riforme indubbiamente, in realtà il paradigma culturale metodologico della scuola da tutti è stato assorbito in quei termini. Quindi quando noi sentiamo anche i genitori che dicono «ah il professore spiega, il professore interroga, questo e quell’altro» ci rifacciamo a quel modello in cui il docente va in classe e fa una conferenza e devono stare tutti zitti a sentire, poi devo andare a casa a studiare e il giorno dopo devono possibilmente riportare le stesse parole usate dal docente, altrimenti il docente se vede che si usano termini diversi assegna valutazione negative.”
Joe Casini: “È un modello molto lineare.”
Antonello Giannelli: “Sì, è un modello lineare che andava bene un centinaio di anni fa perché in quella società la scuola aveva una funzione selettiva, cioè doveva selezionare la classe dirigente e tutti gli altri andavano a fare i contadini, ma letteralmente! Oggi invece il PIL stesso è funzione di quanto i nostri cittadini sono acculturati, quindi se avessimo una popolazione di tutti laureati produrremo più PIL di quello che produciamo adesso. L’Italia ha un PIL pro capite tra i più bassi dei paesi occidentali, quel modello di scuola è un modello selettivo e quindi per selettivo si intende un modello che genera dispersione scolastica. La dispersione scolastica in un paese moderno occidentale è un enorme problema perché da un lato appunto molti non si laureano, non si diplomano e quindi il PIL è basso, dall’altro creano piaghe sociali, disoccupati, tossicodipendenti, devianza giovanile, micro criminalità, criminalità organizzata e così via. Quindi al giorno d’oggi avere una scuola che selezioni, quella scuola del merito di un tempo, è in realtà una scuola che genera disagio sociale e questo secondo me non è chiaro a tutti. Anzi molto spesso in televisione nei dibattiti sentiamo persone che hanno frequentato la scuola solo quando ci sono andati e poi non ci sono più entrate, e magari sono anche diventate personalità in vista del nostro mondo della cultura, che in qualche modo reclamano il ritorno alla scuola seria del merito di un tempo. Ma è una follia perché quella scuola andava bene in quella società e quindi cos’è che si deve fare? Si deve andare molto di più sulla motivazione degli alunni e questa è un’altra cosa che noi vediamo un po’ come un’eresia. L’italiano medio tende a pensare che se non si studia si dovrebbe essere bocciati, si dovrebbe avere delle insufficienze, però questo modello autoritario è un modello che nei paesi occidentali non è più accettato. Poi che sia giusto in questo momento non lo voglio discutere, resta il fatto che nei paesi occidentali c’è una tendenza al «libertarismo» – che non è «liberismo». Pensiamo semplicemente al fatto che tante persone non si volevano mettere le mascherine oppure hanno rifiutato il vaccino pur non essendo no-vax. È proprio una cultura che peraltro viene dagli Stati Uniti, non pensiamo di essere noi gli originali, e in questo modello di società tu non puoi controllare gli altri con l’autorità, devi farlo con l’autorevolezza. Ma essere autorevoli è molto più difficile che essere autoritari. Il modello di scuola finlandese è basato totalmente sull’autorevolezza, loro l’autoritarismo lo hanno distrutto. Noi non siamo riusciti a compiere questa transizione, da notare che il modello autoritario funziona benissimo in una società autoritaria. In Cina gli alunni sono cinquanta a classe e non vola una mosca, studiano tutti come dannati e hanno risultati eccellenti: ma chi vorrebbe vivere in un modello di società come quello cinese? Io no, probabilmente noi in Italia mediamente no perché appunto è un modello diverso. Il problema è il modello sociale, la scuola è incastonata dentro un modello sociale dal quale assume certi comportamenti, una certa visione della vita, dei rapporti con gli altri. Quindi, secondo me, è molto più efficiente in Occidente avere oggi un modello basato sull’autorevolezza, ma questo significa che i docenti devono essere preparati a fare lezione in un modo completamente diverso: devono motivare gli alunni. Da noi il docente medio si sente svilito se deve andare a contrattare con un undicenne quello che un undicenne deve studiare, in Finlandia non si sentono sviliti. Tra l’altro i docenti finlandesi sono i più preparati del mondo, i più aggiornati del mondo, i più formati del mondo. Quindi abbiamo tutta questa serie di tensioni, di pulsioni, di contrasti, di attriti che secondo me sono un grosso problema nel sistema scolastico italiano.”
Antonella Questa: “È interessantissimo, concordo pienamente. È proprio il modello antico che non ha niente a che vedere, a parte con la società nella quale viviamo, ma soprattutto è viziato – insisto – dalla pedagogia nera dove siamo proprio cresciuti senza entrare in contatto non solo con noi stessi, perché nessuno ce l’ha insegnato, e quindi automaticamente con gli altri. Quindi quando vediamo che l’undicenne non ne vuole sapere ci sentiamo insultati o sviliti, ma forse tu stai rivedendo quel bambino che tu eri, a cui a te non hanno dato la possibilità di esprimerti. Allora tu automaticamente diventi autoritario e gli fai subire la stessa cosa, ma questa è una catena velenosissima che non porta a nulla.”
Joe Casini: “Vorrei traslare questo ragionamento su autorità e autorevolezza arrivando al tema Covid, che è una tema che in qualche modo non potevamo non toccare visto appunto i settori che rappresentate. Mi ha colpito molto una frase detta da Edgar Morin – tra l’altro Antonello so che anche tu sei un estimatore – parlando dell’esperienza Covid ha detto «ogni conoscenza che prende una parte e la utilizza per il tutto è una conoscenza, proprio dal punto di vista epistemologica, erronea». Credo anche io che quello che è successo è che una crisi multidimensionale è stata affrontata in una primissima fase esclusivamente da un punto di vista sanitario che, per carità, era quello più importante. Però se ci ricordiamo tutti all’inizio anche i comitati tecnici erano composti soltanto da figure sanitarie. A distanza di due anni, pur essendo un’esperienza che è ancora in corso e non si è conclusa, dal vostro punto di vista privilegiato che sintesi vi sentite di fare?”
Antonella Questa: “Nel mondo del teatro ha portato a galla l’estrema fragilità delle persone che vi lavorano e paradossalmente ha portato anche a galla l’estremo bisogno che abbiamo di cultura perché, se ci ricordiamo, chiusi in casa eravamo tanto contenti di Netflix e Amazon Prime, oppure di vedere i cantanti, gli attori famosi, Fedez che cantava dalla finestra… ne avevamo bisogno perché la cultura ci unisce e condivide, porta sapere e conoscenze, è uno scambio umano di relazione. Però è venuto fuori proprio questa cosa grandissima. Per carità, nel mio caso io sono una persona privilegiata, ho una mia compagnia, ovviamente ho 52 anni quindi ho una carriera e ho sfruttato questo periodo di fermo per approfondire la scrittura del nuovo spettacolo. Ma io mi ricordo bene i giovani che sono veramente rimasti fortemente impattati dal Covid e che ancora adesso sono poi competenze, qualità, artisti che si sono persi. Mi riferisco ai tecnici che magari nel frattempo sono andati ad aprire un negozio di biciclette, all’attrice che invece è andata a fare tutt’altro, perché ovviamente non c’era nessun tipo di aiuto, di protezione.”
Joe Casini: “A proposito della questione generazionale a cui facevi riferimento anche io ho l’impressione come se fosse partito il timer di un enorme bomba che sta ancora lì e tra qualche anno vedremo cosa succede. Speriamo nulla di troppo drammatico, ma credo che anche per Antonello pensando ai ragazzi ha aperto veramente un mondo…”
Antonello Giannelli: “Diciamo che è stato innanzitutto un enorme esperimento di massa, perché ci si è confrontati obbligatoriamente con l’utilizzo di tecnologie telematiche e quindi si è sperimentata questa nuova modalità di fare lezione: con tutti i pregi e difetti del caso naturalmente, però si è sperimentato, si è fatto qualcosa di diverso. Non sempre i risultati sono stati buoni. Per esempio è aumentato il numero dei cosiddetti low performer – cioè dei ragazzi con basse prestazioni in termini di capacità di lettura, anche matematica eccetera – perché soprattutto sulle frange di popolazione caratterizzate da un livello socio-culturale piuttosto basso, dove magari internet non ti funzionava, magari non avevi il computer abbastanza veloce. Le scuole hanno sopperito per quanto hanno potuto, però se vivi con due, tre, quattro fratellini e i due genitori in un’unica stanza e hai una connessione lenta è diverso che se vivi in una casa spaziosa, dove ognuno ha la sua stanza, sta tranquillo in silenzio, con un computer veloce, una connessione veloce. Si è verificato in alcune situazioni quello che io raccontavo prima, cioè che degli alunni che nella normale didattica in presenza riuscivano a seguire erano improvvisamente di fatto emarginati, erano completamente assenti. Abbiamo anche avuto situazioni di alunni normalmente deficitari e che invece a distanza sono diventati bravissimi, autonomi, si sono messi a studiare, hanno
scalato, studiavano fino a tardissimo. Quindi ha dimostrato che una scuola basata sulla motivazione, sul coinvolgimento dello studente, sulla condivisione delle ragioni per le quali si studia può essere a volte di gran successo rispetto anche a quella tradizionale: si recuperano studenti che normalmente sarebbero stati svogliati, poco motivati, quindi è un’esperienza interessante. Poi un’altra cosa, sicuramente è venuto fuori che l’aspetto delle relazioni umane è fondamentale. Anche questo si collega un po’ con quello che dicevo prima, la scuola non è una fabbrica in cui si va a studiare, si va istruirsi come se avessimo un imbuto nel quale qualcuno ci deve infilare le nozioni. Ecco questo è un concetto che ormai è superato, un tempo era così, la scuola è un luogo in cui è fondamentale il rapporto con gli altri, si impara di più dagli altri che dal docente e sono fondamentali gli altri, altrimenti non è scuola. Io posso istruire un figlio a casa chiamando un insegnante privato, ma quello non crescerà nello scambio con gli altri e sarà un ragazzo handicappato nei confronti degli altri perché non svilupperà quelle soft skill che vengono viste sempre più come uno strumento di successo fondamentale nella vita sociale. Quindi il Covid ci ha insegnato molto nella tragicità della vicenda, il fatto è che non sono sicuro che abbiamo fatto il giusto apprendimento e che siamo in grado di metterlo in atto adesso.”
Joe Casini: “Ci tenevo a farvi questa questa domanda in chiusura perché è una delle cose che a me ha veramente colpito soprattutto i primissimi mesi. Nel momento in cui abbiamo dato delle priorità, ovviamente è stata una situazione emergenziale drammatica sotto il punto di vista sanitario, questo non lo metto in dubbio, però pensando ai lavoratori dello spettacolo e non solo, quando si faceva distinzione tra lavori utili, essenziali e lavori inutili, sentir definire il proprio lavoro «non socialmente utile»… oppure la scuola che, non solo per il Governo ma per gran parte della società, mi ricordo che nei sondaggi non è mai stata una priorità quella di aprire le scuole. Questa è stata secondo me un’occasione persa. Il momento in cui dovevamo dare delle priorità, forse poteva essere un’occasione per scoprirci un po’ più belli. Ripeto, la situazione è stata oggettivamente complicata, ma questo passaggio era una buona opportunità da sfruttare. Allora intanto vi ringrazio, il tempo è volato, sapevo sarebbe stata una puntata velocissima, quindi ci avviciniamo a quella che è la parte conclusiva della puntata e la nostra abitudine è far fare le domande tra gli ospiti. L’ospite della puntata precedente vi ha lasciato una domanda e poi chiederò a voi di lasciare una domanda per l’ospite della prossima puntata, così che possa essere di spunto. Nella puntata precedente abbiamo fatto una chiacchierata con Marco Bentivogli, ex segretario FIM CISL ma in generale una persona che ha un’esperienza sindacale lunghissima, il quale vi ha lasciato questa domanda. Parto dalla domanda per Antonella: come vedi dal tuo punto la questione diritti e organizzazione sindacale nel tuo settore?”
Antonella Questa: “Allora come dicevi il Covid ci ha costrette e costretti a guardare effettivamente la nostra condizione di pochi diritti oppure quelli che ci sono non vengono rispettati, quindi ci ha spinto a unirci. Io faccio parte dell’associazione UNITA e faccio una premessa, visto che parliamo di sindacato, il sindacato di riferimento era degli attori, c’era, c’è sempre stato da decenni ed era all’interno della CGIL. La differenza con le associazioni di categoria nel quale ci siamo invece ritrovati un po’ tutti e tutte, io parlo nel caso specifico di UNITA, ma vale anche per Amleta ad esempio, sono categorie di artisti, quindi persone che stanno dentro e che sanno come funziona e quali sono i diritti che ci mancano. Per esempio se voglio farmi una famiglia, quindi il diritto alla maternità, il diritto anche di essere protetti da un punto di vista salariale, quindi con dei minimi. Io vivo tra l’Italia e la Francia, e in Francia c’è il sistema della intermittent di spettacolo, quindi se io lavoro, dico una una cifra a caso, cento giornate l’anno non è che io poi le 265 restanti non faccio una mazza: quelle 265 mi servono per studiare, provare, formarmi e mi devono essere riconosciute. Quindi cosa succede in Francia? C’è effettivamente la disoccupazione, come tocca a chiunque lavori in qualsiasi settore. Se per un periodo tu non sei sotto contratto ricevi in base a quello che hai guadagnato in precedenza un importo che ti permette quel mese di poterti pagare l’affitto e continuare a fare il tuo lavoro, formarti, studiare, provare, scrivere. Io vado in scena un’ora e mezza, ma ci vogliono anche due anni a scrivere uno spettacolo, è molto complesso. Poi c’è anche una questione di diritti di genere e diritti di minoranze, anche dei disabili. C’è stato un film che di recente ha fatto scalpore perché gli attori hanno fatto finta di essere su una sedia a rotelle, questo è abilismo perché gli attori disabili e le attrici disabili ci sono. Da un punto di vista dei diritti il Covid ci ha spinto a unirci, a portare la nostra parola, la nostra esperienza quindi le cose stanno avanzando.”
Joe Casini: “Mi piace questo risvolto in qualche modo propositivo, che è anche una costante un po’ dei tuoi spettacoli, cioè cercare sempre di uscire non soltanto con la pars destruens ma anche con quella propositiva.”
Antonella Questa: “Sempre, per me sono tutti happy end, bisogna sempre mostrare che c’è il bicchiere mezzo pieno. Poi tu fai come vuoi, lo bevi o non lo bevi, però dare una via d’uscita, far vedere che c’è.”
Joe Casini: “Invece Antonello la domanda che ti ha lasciato Marco riguarda il ruolo del docente nelle scuole. Lui dice che la scuola in qualche modo dal punto di vista didattico è centrata sulla figura del docente, e magari sarebbe interessante aprire la didattica non soltanto ai docenti ma anche in maniera strutturata ad altri professionisti o altre figure che possono dare dei contributi. Un po’ in quella logica più complessa di cui anche tu parlavi prima, magari ci sono esperienze che in maniera isolata vengono fatte da una scuola piuttosto che in un’altra ma forse a livello strutturale non si fa molto. Io su questo aggiungo, anche se è autobiografico ma mi è venuto in mente mentre Marco ti faceva la domanda, anche sempre la questione dell’orientamento scolastico. Io ho fatto l’orientamento alla fine del liceo che non ha prodotto grandi risultati, alla fine io come prima laurea ho preso Economia perché mio padre ha fatto Economia, non perché avessi le idee chiare. Poi non mi penta di averla fatta, ho integrato gli studi in mille altri modi, ma forse con una maggior quantità di esperienze e di riflessione magari avrei fatto anche altre scelte. Quindi ecco, c’è forse bisogno di maggior apertura anche ad altre figure o altre esperienze? Tra l’altro veniamo anche da un’esperienza nuova che è quella dell’alternanza scuola-lavoro che è un’esperienza che ha dato molti spunti di riflessione.”
Antonello Giannelli: “Sì in linea di principio sì, ma credo che sia piuttosto difficile da attuare. Faccio presente che esistono quei corsi di istruzione terziaria, gli ITS, gli istituti tecnici superiori che non sono delle scuole superiori, sono un po’ l’analogo dell’università, però professionale, una sorta di università professionale in cui il numero consistente di ore di lezione mi pare di ricordare sia il 50%, ma potrei sbagliarmi, ed è tenuto da persone che provengono dal mondo del lavoro e non sono incardinate, quindi come docenti. È una realtà molto di nicchia, in Italia in particolare lo è, però si sta sviluppando e permette di abbattere la disoccupazione giovanile. In ogni caso dicevo, organizzare qualcosa del genere è difficile perché pensiamo anche che i docenti sono 800.000 in Italia, quindi anche reperire poi tutte queste persone che potrebbero provenire dal mondo del lavoro per fare lezione può essere un po’ difficoltoso. Detto questo delle esperienze ci sono in questa direzione perché si può utilizzare la quota di autonomia per esempio per introdurre qualche ora di lezione in una maniera diversa, però sono molto poche le realtà scolastiche che praticano tutto questo e quindi a me sembra un po’ difficile, anche se condivido il fatto che lo spirito di questo tipo di iniziativa dovrebbe essere quello di una maggiore condivisione tra cittadini e scuola e personale scolastico. Sarebbe molto interessante dedicarsi a questo e studiare una soluzione che funzioni davvero.”
Joe Casini: “Grazie, a questo punto è il vostro turno per fare la domanda perché nella prossima puntata tra due domeniche faremo una chiacchierata con Rossella Pivanti che è una content producer, in particolare si occupa di produzione podcast anche per aziende, quindi utilizza uno strumento che è quello del podcast – che peraltro è lo strumento che stiamo utilizzando anche noi ora – per giocare un po’ sulla comunicazione e creare nuovi spazi, nuove dinamiche e quindi anche facilitare il passaggio di contenuti sui vari stakeholder aziendali, in caso di aziende, oppure anche tra le persone. Quindi non so se avete tutti e due o uno dei due una domanda da fare a Rossella per la prossima puntata.”
Antonello Giannelli: “Mi piacerebbe chiederle come si può pensare di inquadrare nel mondo scolastico, quella che nel mondo televisivo e ormai non solo più nella televisione si chiama edutainment, cioè l’attività di educazione, d’istruzione che però è anche intrattenimento, dove in qualche modo tu insegni attraverso dei programmi, delle attività che hanno anche un carattere ludico. La domanda quindi è come si potrebbe utilizzare al meglio la tecnica dell’edutainment, il concetto dell’edutainment, nelle attività formative?”
Joe Casini: “Grazie Antonello. Antonella vuoi aggiungere una domanda per Rossella?”
Antonella Questa: “Sì volentieri, perchè io sono andata a vedere Pivanti cosa fa, io non conoscevo assolutamente questa sua professione proprio di brand podcaster e quindi io mi sono chiesta qual è l’ingrediente vincente di un brand podcast, cioè per fare proprio il podcast di un brand e se è qualcosa che lei Individua da sé, studiando l’azienda, cioè come fa a trovare questi ingredienti. Ecco questa è una cosa che mi interessa da un punto di vista tecnico, come linguaggio.”
Joe Casini: “Perfetto, grazie perché le domande già danno un taglio molto interessante alla prossima puntata. A questo punto io vi ringrazio per essere stati con noi, siamo andati un po’ più lunghi, ma chi se ne importa! La puntata è stata bellissima e quindi vi ringrazio per aver partecipato. Buona domenica, ci vediamo tra due settimane con Rossella Pivanti sempre sul podcast di Mondo Complesso.”