Con Marco Bentivogli parliamo dei trade-off del rapporto tra lavoro e nuove tecnologie, tra problemi economici e limiti culturali.
Joe Casini: “Buongiorno e buona domenica, benvenuti ad una nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast in cui parliamo della complessità del mondo e di come nel mondo di oggi i saperi, in qualche modo, sono sempre più interconnessi. Lo facciamo come al solito cercando di fare delle chiacchierate con ospiti che ci possono portare un punto di vista particolare su questa nuova complessità. Oggi abbiamo come ospite Marco Bentivogli, benvenuto Marco!”
Marco Bentivogli: “Buongiorno e buona domenica.”
Joe Casini: “Allora Marco ha un’importante storia come sindacalista, in particolare nel settore metalmeccanico, è anche coordinatore e co-fondatore di base Italia una think tank, quindi per fare delle riflessioni su temi della politica, è anche un componente della Commissione per la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale presso il MISE. In particolare questo è un aspetto che con Marco affronteremo, tutto il tema dell’innovazione tecnologica e come i lavoratori possono poi, ora si dice molto, convivere perché c’è un po’ questa narrazione di intelligenza artificiale contro i lavoratori. Partiamo subito, la prima domanda di solito è quella che noi chiamiamo la «domanda semplice» ed è una domanda che in apparenza è semplice, ma nel senso che è molto breve, e dà la possibilità all’ospite di mettere a fuoco la questione. Vista la tua importante esperienza, prima nel sindacato e poi con il think tank, volevo farti una domanda sui sistemi di rappresentanza: a cosa servono i sistemi di rappresentanza? Una volta si chiamavano anche corpi intermedi.”
Marco Bentivogli: “La rappresentanza è uno degli elementi fondamentali della democrazia, ovviamente la possibilità delle persone di organizzarsi dal punto di vista politico, sociale, civico consente, in primo luogo, di dare gli equilibri e poteri. L’illusione che il potere di un imprenditore è lo stesso del potere di un singolo lavoratore è appunto un’illusione, le persone per poter avere voce e soprattutto ascolto passa per la necessità di trasformare il singolare in plurale, cioè quello che oggi chiameremmo algoritmo che convince le persone della convenienza e della necessità di mettersi assieme perché i loro desideri e aspirazioni e anche la conquista di migliori condizioni di vita diventi una chance, una possibilità concreta e reale. Oggi la rappresentanza è in forte discussione la caratterizzazione del sistema industriale e di rappresentanza del lavoro erano già in discussione dalla fine degli anni Ottanta con gli anni Novanta. Io utilizzo sempre questo esempio molto forte: la periferia nord di Milano, Sesto San Giovanni aveva 40.000 metalmeccanici dipendenti, 34.000 iscritti alla federazione unitaria dei metalmeccanici, per cui una forza straordinaria del sindacato… però questi 40.000 dipendenti metalmeccanici erano in quattro grandi fabbriche! Oggi Sesto San Giovanni è terziario avanzato e le imprese che ci sono hanno una dimensione intorno ai 12.000 come media, per cui anche la capacità con il vecchio modello organizzativo associativo di allora oggi rischia di essere completamente inefficace. Per cui la capacità di autoriforma dal punto di vista organizzativo del sindacato è un tema fondamentale, perché a livello globale noi vediamo questo aspetto che il sindacato cresce nei paesi in via di sviluppo con grande forza mentre nei paesi «ricchi» ha una grande difficoltà soprattutto per la frammentazione del lavoro e per cogliere nuovi bisogni e nuove strategie conseguenti per esercitare ruoli di rappresentanza. C’è un libro uscito non da molto di uno studioso americano, Tom Nichols, che si chiama «Il nemico dentro» che è basato ovviamente sugli Stati Uniti ma che corrisponde molto anche al nostro Paese. Le democrazie dei paesi occidentali hanno una caratterizzazione che porta ad un allungamento, una rarefazione dell’incontro che si ha generalmente con il potere pubblico, un po’ troppo avanti con l’età. Nel senso che si diventa cittadini molto tardi e quello che manca è tutto il percorso di pedagogia alla rappresentanza che è pedagogia alla mediazione, alla cultura dell’integrazione, alla capacità, appunto, come dicevo all’inizio, di mettere insieme istanze di singoli, perché diventino piattaforme, diventino rivendicazione comune. Questa cosa è un po’ in crisi anche perché il senso della rappresentanza va completamente ricostruito su basi nuove.”
Joe Casini: “Il tema della rappresentanza è un tema che è molto attuale rispetto alla tematica di questo podcast che è la complessità. Intanto perché la rappresentanza comunque è un fenomeno emergente, la nostra società nel momento in cui ha iniziato a svilupparsi e diventare più complessa ha visto nascere nel corso dei secoli forme sempre più organizzate di rappresentanza. Poi perché richiama anche degli aspetti, uno in particolare mi ha colpito in quello che dicevi tu, quando ad un certo punto parlavi di tematiche locali e tematiche globali. Da questo punto di vista, negli anni passati una delle critiche che più spesso si sentiva fare ai sistemi di rappresentanza, in particolare ai sindacati, è che si rimaneva molto focalizzati su tematiche locali mentre erano in atto grandi cambiamenti a livello globale. Da questo punto di vista tu la convivenza tra il locale e il globale come la vedi? In particolare i sindacati, ma in realtà oggi anche purtroppo con ciò che sta accadendo, la guerra in Europa ma in generale anche la pandemia, anche a livello politico c’è sempre questo doppio binario tra un punto di vista più locale, anche inteso come interessi locali, e una contrapposizione di fenomeni che sono ormai globali.”
Marco Bentivogli: “Questo è proprio un grande snodo, nel senso che se ci pensiamo esiste una federazione mondiale che è la confederazione mondiale di sindacati che è gigantesca, aggrega centinaia di milioni di lavoratori iscritti. In realtà giocare partite a livello internazionale è possibile solo nei casi di cessione di sovranità, nel senso che si rinuncia ad agire, non ad agire localmente, ma a determinare tutto ciò che vogliamo nel nostro piccolo orto per giocare una partita in cui siamo sicuramente più efficaci e più forti. Ecco questo tema dell’integrazione, della cooperazione internazionale del sindacato è ancora molto debole, si ha un sindacalismo internazionale, europeo e mondiale che potrebbe fare veramente tantissimo, anche perché ha degli interlocutori che invece sanno giocare a livello globale. Una multinazionale si muove velocemente in giro per il mondo, ma anche la politica ha una maggiore capacità di integrazione a livello internazionale, bisogna dire che anche la politica avrebbe della strada da fare con questa necessità di cooperazione globale, vediamo dall’ambiente al lavoro per cui il tema anche della sostenibilità, come fan fatica a costituire del framework internazionali, degli accordi che vincolano in qualche modo tutti i paesi del mondo. Ecco questa è una partita molto importante, in realtà il rischio che corriamo oggi è ancora al minore «internazionalismo» dei soggetti sociali proprio perché il mandato che i lavoratori assegnano alle organizzazioni sindacali, ma la rappresentanza in generale, anche quelle politica, è un mandato molto piccolo, è molto di campanile della singola azienda, neanche a livello nazionale spesso a livello territoriale, anche quando è in contrasto con la tutela di altri lavoratori. In realtà questo è un gioco molto pericoloso perché provoca un indebolimento del fronte e perché non solo la ruota gira banalmente ma perché in realtà tutte le operazioni sindacali di maggior respiro sono state esperienze internazionali. Nel dopoguerra gli Stati Uniti hanno investito non solo sul New Deal del nostro Paese, ma anche sul rafforzamento delle organizzazioni sindacali. È quella sorta di solidarietà, per usare una battuta «solidarietà egoista», nel senso che se miglioriamo le condizioni di vita in tutto il mondo difficilmente le aziende si potranno muovere e fare dumping di condizioni sociali in paesi dove le tutele sono più basse e la chiave di volta è favorire la libertà di associazione sindacale e di contrattazione in tutti i paesi del mondo quando sappiamo che questa cosa non esiste.”
Joe Casini: “Mi verrebbe da chiederti da questo punto di vista che ruolo gioca l’aspetto culturale? Cioè nel momento in cui appunto le multinazionali più facilmente riescono a dislocare o a spostare le produzioni dall’altra parte tanto più riusciamo a fare un investimento in termini culturali sui lavoratori tanto più da una parte forse il costo di perdere la forza lavoro e spostarsi aumenta, no? In questo senso che ruolo gioca la cultura, la formazione e come ti sembra, da questo punto di vista, la situazione in Italia? Secondo la tua esperienza si sta facendo abbastanza per prepararsi a questa maggiore mobilità e volatilità del lavoro oppure effettivamente c’è da fare ancora una profonda riflessione sul tema della formazione?”
Marco Bentivogli: “Questa discussione su questo singolo tema, molto importante per altro, è molto schiacciato dal riflesso sul discorso pubblico che se ne fa attraverso la mediatizzazione di questi temi e nella mediatizzazione si dicono molte cose non reali. Nella maggior parte dei casi le aziende non vanno via, non chiudono e delocalizzano per condizioni salariali migliori, nel senso per poter pagare meno i salari. Facciamo un’analisi reale e ragioneremo su altri invece aspetti che invece riguardano dell’incapacità proprio del nostro Paese di consolidare gli investimenti nel proprio territorio e di attrarne di nuovi e spesso si va via per burocrazia, per mancanza di competenze diffuse, per un sistema del nostro Paese che è assolutamente respingente rispetto a qualsiasi iniziativa imprenditoriale. Quando uno dice questa cosa dice «ah sei filo-padronale» ma in realtà avere un’impresa che consolida e investe è la cosa che fa meglio ai lavoratori. Ovviamente il sindacato c’è e fa sì che queste cose avvengano nel rispetto della dignità dei lavoratori, del territorio e dell’ambiente, ma non c’è peggior cosa di discutere con un’azienda chiusa: è quando si ha il lavoro che si ha la possibilità di esercitare i diritti che sono scritti nel contratto collettivo nazionale. Noi spesso abbiamo uno Stato molto pesante in quanto a burocrazia, agli adempimenti, alle autorizzazioni. Non solo, abbiamo un sistema giudiziario che invece di assicurare la certezza del diritto, assicura la certezza del contenzioso per cui, come si dice in gergo, se hai torto fai ricorso mentre se hai ragione devi trovarti un buon avvocato. Tutte queste cose, il costo dell’energia, appunto, la burocrazia, il sistema della giustizia che non funziona sono tra gli aspetti che disincentivano e provocano spesso delocalizzazioni e se guardiamo gli investimenti diretti esteri la gran parte dei nostri investimenti esteri o di quelli europei ha come destinatario prima in classifica la Germania che non è un paese a basso costo del lavoro e salari bassi, è un paese che mediamente ha orari di lavoro più bassi dell’Italia, maggiore produttività e salari più alti e un mercato del lavoro che non è così poco rigido. Il tema nuovo è che esistono infrastrutture di trasferimento tecnologico e di competenze e di generazione di innovazione e questo consente anche in questo periodo, detto di accelerazione tecnologica, in cui abbiamo un tasso di sostituzione tecnologica molto elevato, consente alle persone di rimanere «agganciate», di stare dentro il gorgo dell’innovazione. Su questo noi dobbiamo fare sicuramente un lavoro molto nuovo sulla formazione, perché spesso è ancora di tipo fordista. Serve una formazione che invece diventi più adattiva alla persona, la formazione troppo spesso ha una mortalità dell’apprendimento molto alta perché si fa una formazione seriale uguale per tutti con lo stesso metodo di apprendimento, lo stesso programma, gli stessi per tutti. In realtà una formazione che puoi fare a una persona che da quarant’anni non è in un’aula deve essere totalmente diversa da chi è appena uscito dall’università.”
Joe Casini: “Sempre sul tema della formazione, mi hanno colpito in questi anni due espressioni molto efficaci che hai utilizzato: una che forse riguarda più la parte datoriale, l’altra forse riguarda più i lavoratori, ma sul quale ti volevo chiedere un commento. Mi ricordo una tua frase in cui dicevi «dovremmo introdurre una tassa sull’ignoranza», cioè sulle esternalità negative che vengono generate nella società da chi non investe in formazione; dall’altra parte poi tu hai parlato spesso di «tecnofobia». Ecco, queste due espressioni, che ho trovato molto efficaci, raccontano un po’ questi due atteggiamenti, come la intendi?”
Marco Bentivogli: “Sullo slogan di tassare l’ignoranza devo condividere le royalty, se esistessero, con il mio amico Carlo Alberto Carnevale Maffè. Il messaggio sostanzialmente è questo: avere l’idea che il proprio bilancio aziendale, la fotografia di un’azienda, non è solo il conto economico e lo stato patrimoniale, ma c’è un patrimonio di competenze delle persone che è il vero valore dell’impresa. Da questo punto di vista chi dissipa il proprio patrimonio industriale e finanziario ovviamente ne subisce le conseguenza. Questo non avviene quando si dissipa, non si aggiorna e non si custodisce il proprio patrimonio di competenze umane e per questo bisognerebbe tassare le aziende
che non custodiscono questo patrimonio e trattarle esattamente come chi emette CO2. Noi non abbiamo più purtroppo – non so se purtroppo del tutto – i distretti industriali, dove a livello orizzontale la competenza delle persone era uno degli elementi di specializzazione del distretto per fare le scarpe, per fare i rubinetti, per fare tantissime cose fino a produrre veicoli aerospaziali. Oggi dobbiamo ricostruire gli ecosistemi, soprattutto sugli ecosistemi delle competenze e della formazione. Io ho scritto un libro intero che si chiama «Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia» perché in realtà noi siamo un Paese che cementa i proprio legami, che è contro l’innovazione. Siamo il Paese che quando iniziava a diffondersi tra il ‘62 e il ‘65 in Europa e negli Stati Uniti la TV a colori, noi ci siamo arrivati dopo il 1972 perché partì un dibattito in cui forze politiche e sindacali, anche i grandi giornali, dissero «chissà cosa accade agli esseri umani con la TV a colori». Ci fu addirittura nel ‘72 nella coalizione di Governo la minaccia di una crisi se si fosse, come dissero allora, accelerata la produzione delle TV a colori. Ci fu addirittura questa beffa della Storia per cui il segnale a colori in Italia arrivava attraverso Capodistria, non avevamo gli apparecchi anche se la Rai era già pronta tecnologicamente a poter offrire quel servizio televisivo.”
Joe Casini: “Ancora una volta non è una questione tecnologica ma culturale.”
Marco Bentivogli: “Assolutamente culturale. In realtà in un capitolo di quel libro elenco alcuni dei grandi inventori e sono quasi tutti italiani, se pensiamo alla radio, al telefono, gli Stati Uniti hanno riconosciuto che non fu Bell ma Meucci, per arrivare all’accelerometro, ai chip, all’mp3 in parte. Sono tutte invenzioni italiane, tutte sviluppate però all’estero perché coltiviamo in questo senso la paura, non coltiviamo la speranza. Qual è il problema? Che l’innovazione e il cambiamento generano la necessità di predisposizione, di anticipo soprattutto. Guardiamo i paesi che minimizzano i rischi, che aumentano le opportunità, sono i paesi che anticipano la formazione. La paura paralizza, non fa costruire un atteggiamento di preparazione, di anticipo. Io quel libro l’ho scritto partendo da un assunto di Warren Bennis che era un commentatore americano a cui chiesero «quale sarà la fabbrica del futuro?» e lui disse «la fabbrica del futuro avrà due dipendenti: un uomo e un cane, il robot farà il lavoro dell’uomo e l’uomo dà da mangiare al cane, perché il cane sarà quello che controllerà che l’uomo non danneggi le macchine». Questa è una fesseria, servono le persone, sono centrali e in realtà anche dal punto di vista di questa necessità del robot antropomorfo con l’immagine umana non torna neanche nei numeri. C’è questo indicatore che si chiama «densità della robotica», cioè il numero dei robot di nuova generazione installate ogni 10.000 lavoratori. I paesi a maggiore densità robotica sono Giappone, Corea del Sud, Germania e Svezia, e sono i paesi a più bassa disoccupazione. Per cui la tecnologia di per sé non è né bene né male, dipende da noi.”
Joe Casini: “Da questo punto di vista una battuta al volo te la devo fare sul tema dell’intelligenza artificiale. Qualche puntata fa abbiamo avuto ospite Andrea Pescino, abbiamo parlato dell’intelligenza artificiale, Andrea si occupa di progetti di intelligenza artificiale un po’ in tutto il mondo e abbiamo fatto una riflessione in particolare su come si sta muovendo l’Unione Europea. Questo è un aspetto, secondo me, molto importante perché dal mio punto di vista su questi temi l’Europa ha lo spazio per continuare a costruire una propria identità come terzo polo. Ecco, visto che tu sull’intelligenza artificiale hai una esperienza in prima linea nella tua attività anche con il MISE, come vedi la situazione a livello europeo?”
Marco Bentivogli: “Condivido l’obiettivo che rappresentavi cioè la necessità che l’Europa anche sulle grandi questioni dell’Innovazione rappresenti un’altra idea rispetto ai blocchi che nella geopolitica attuale si stanno misurando e confrontando anche esattamente non a colpi di margherita, e questo primo passo è la consapevolezza. Quando si parla di intelligenza artificiale in pochi raccontano che è già dentro la nostra vita, il nostro smartphone è tutto basato su algoritmi di IA, l’altro elemento paradossale è che l’intelligenza artificiale è molto importante perché in un tessuto industriale come il nostro consente di poter sviluppare, adesso lo dico tagliando tante cose che bisognerebbe dire, molto più facilmente il lavoro, di elaborare dati con maggiore capacità e possibilità. Tutte queste cose l’Europa le sta affrontando con un po’ di ritardo, sicuramente l’impiego dell’intelligenza artificiale non è esente a critiche e anzi ci sono dei bias che gli algoritmi di intelligenza artificiale sicuramente introducono, ma la maggior parte sono tutti appresi dall’uomo. Quando si dice che l’intelligenza artificiale nelle selezioni spesso genera soluzioni sessiste, discriminatorie, basate sul censo, sono tutti bias appresi dall’uomo, e questo ti dà contemporaneamente la possibilità di sterilizzare quei bias e di governarli. Questo è ancora un terreno che con i piani di Next Generation EU si cerca di colmare ma, secondo me, ancora non con la forza necessaria.”
Joe Casini: “Allora siamo in conclusione, abbiamo spaziato moltissimo su tantissimi argomenti che è un po’ la peculiarità del podcast, questa peculiarità noi la sottolineiamo in chiusura con un momento di domanda incrociate tra gli ospiti. Nella puntata precedente abbiamo fatto una chiacchierata con Luca Romano, il quale svolge advocacy sui social network per quanto riguarda l’energia nucleare, cercando di affrontare il tema da un punto di vista quantitativo, dati alla mano, sgomberando da quelli che possono essere i bias e i pregiudizi, i motivi e le paure che possono darci una visione un po’ distorta del fenomeno. Luca ha lasciato una domanda sul tema degli stakeholder per la tua attività in sindacato, in particolare, nei sistemi di rappresentanza. Per quanto riguarda il sindacato Luca ti domanda, posto che abbiamo nel nostro Paese una popolazione di pensionati sempre crescente e una spesa previdenziale che continua a crescere, quali sono le insidie e come fa un’organizzazione come il sindacato a fare in modo di guardare a questi interessi in maniera non esclusiva, e quindi a svantaggio delle battaglie dei pià giovani? Chiaramente i due discorsi sono interconnessi, perché i nuovi lavoratori sostengono e rendono sostenibili le spese pensionistiche, però non c’è il rischio di guardare in maniera quasi esclusiva ai temi che interessano la popolazione di stakeholder più numerica in qualche modo? Come si combinano queste esigenze poi nel governare un sindacato?”
Marco Bentivogli: “È una domanda molto importante. Al di là dei numeri ha vinto un’egemonia culturale, nel senso che non esiste paese al mondo in cui si discuta così tanto di pensioni. I giovani non solo sono pochi ma sono destinati ad essere sempre meno, noi abbiamo questo dato che per me è inquietante, cioè nei prossimi trent’anni avremo 8 milioni di italiani in meno in età da lavoro, questo non è poco perché mal contati abbiamo 3.600.000 disoccupati oggi: immaginiamo di avere 8 milioni in meno in età da lavoro, significa un ridisegno del mercato del lavoro in cui spendiamo nella previdenza molto più di quello che spendiamo nella formazione. Se immaginiamo questo equilibrio demografico lo dobbiamo immaginare anche come capacità di riassegnare diverse priorità alla spesa sociale, se continuiamo ad immaginare che invece lasciamo le vecchie priorità con un Paese completamente cambiato in cui ci sarà necessità di spendere anche per i pensionati. Noi avremo il raddoppio degli ultra-ottantenni e io dico non è vero che il nostro è un «paese per vecchi»: il nostro è un paese per anziani benestanti e in buona salute perché per gli anziani non benestanti e non autosufficiente il nostro è un paese terribile. Questo determina anche, io dicevo un pezzo di egemonia culturale negli ultimi anni in cui facevo il sindacalista, giovani di vent’anni che parlavano contro la legge Fornero e questo è un guaio perché è una sconfitta culturale. Il sindacato si deve battere per migliorare quei quarant’anni di lavoro, migliorare le condizioni di lavoro, non per offrire già all’inizio dell’età lavorativa l’idea di fuga dal lavoro. Bisogna liberarsi nel lavoro, non dal lavoro. La California che ha sfornato molte delle innovazioni, ultimamente sta sfornando anche le idee più nichiliste, cioè quest’idea di liberazione dal lavoro e non nel lavoro.”
Joe Casini: “A questo punto Marco è il tuo turno, gli ospiti della prossima puntata saranno Antonella Questa, che è attrice e regista teatrale, e Antonello Giannelli, che è il presidente di ANP, il sindacato dei dirigenti scolastici. Avremo questi due ospiti apparentemente così distanti ma che in realtà sono accomunati da un interesse su un tema che è quello di cui parleremo nella prossima puntata, ovvero la pedagogia e l’educazione. C’è una domanda che a questo punto Marco vorresti fare ai nostri prossimi ospiti e che posso portar loro da parte tua?”
Marco Bentivogli: “La sdoppio in due. Al dirigente della ANP sicuramente c’è un grande tema di riflessione sui nuovi modelli di apprendimento, questo è un bel dibattito che si sta facendo il giro per il mondo, non è vero che il mondo è così sterile. Bisogna abbandonare un po’ l’idea che tutto ruota attorno all’insegnante: il mondo della scuola è un sistema complesso in cui bisogna ridare centralità ai ragazzi e alle ragazze, e ricostruire tutto attorno a loro. La seconda domanda è sui lavoratori dello spettacolo, io ho seguito sempre l’industria, i metalmeccanici, ho adorato fare il sindacato in quel mondo e oggi vedo che il mondo dello spettacolo è un mondo che assolutamente ha bisogno di rappresentanza e di tutela, perché è un mondo che è stato preso a sberle. La domanda è se si vede una spinta ad organizzarsi, se esiste questa consapevolezza che forse è il momento che i lavoratori del mondo dello spettacolo, che è un bel mondo visto che la cultura è assolutamente fondamentale, vengano tutelati con molta più energia e risorse.”
Joe Casini: “Mi piace molto questa commistione, prenderemo spunto per portare avanti la chiacchierata nella prossima puntata del podcast e a questo punto Marco ti ringrazio per essere stato con noi per questa chiacchierata e diamo appuntamento ovviamente a tutti quanti tra due domeniche. Nella prossima puntata del podcast parleremo appunto con Antonella Questa e Antonello Giannelli di pedagogia ed educazione. Buona domenica a tutti e a presto.”