Lo stress è insito in ogni aspetto della nostra esistenza.
Viviamo da sempre accumulando intenzioni frustrate, costantemente in bilico tra ciò che vogliamo e ciò che la realtà ci consente di realizzare.
È una condizione cronica, amplificata però oggi da una società della prestazione che ci costringe a vivere in uno stato di incessante autosfruttamento.
La vita contemporanea non ci permette di rilassarci: dobbiamo continuamente produrre, migliorare noi stessi, reinventarci, accumulare beni.
In questo regime della prestazione, lo stress non è più un incidente occasionale, ma una norma sociale.
Viviamo sotto la tirannia dello sguardo altrui, ed è qui che emerge il burnout, dall’impossibilità di conciliare la propria intimità con le richieste sociali.
Il tempo moderno è un flusso incessante che ci trascina attraverso un eterno presente: ci sforziamo di correre sempre più velocemente, ma il paradosso è che corriamo fermi sul posto.
In questo senso, potremmo vedere lo stress come una difesa immunitaria, una risposta adattiva a un sovraccarico di stimoli. Ma, in un contesto di sovraesposizione, questa difesa si trasforma in un tormento cronico.
Nella società della prestazione non siamo mai sufficienti, non ci apparteniamo più. Il nostro tempo è interamente dedicato al lavoro, all’autosfruttamento, in una forma di violenza autodiretta.
Siamo il nostro imprenditore, il nostro manager, il sorvegliante delle nostre performance.
Così, lo stress diventa inevitabilmente la nostra nuova condizione esistenziale, una risposta all’incapacità di sottrarci alle aspettative, all’iperconnessione, alla trasparenza forzata.