Usiamo le parole per categorizzare il mondo. Se diciamo “foresta”, abbiamo l’impressione di definire qualcosa in maniera precisa, distinguendola dal resto. Oggi proviamo a togliere uno per uno gli alberi dalla foresta: senza quale albero una foresta smette di essere tale?
Da sempre, almeno da quando abbiamo inventato il linguaggio, cerchiamo di addomesticare l’incertezza attraverso la produzione di categorie nette e rassicuranti. Questa operazione non è mai soltanto un atto individuale, ma un processo collettivo guidato da aspettative, norme e significati condivisi.
Sarebbe ingenuo pensare che tali distinzioni – per esempio “amico/nemico”, “produttivo/improduttivo”, “consumatore/produttore” – siano frutto di un bisogno cognitivo puramente personale. In verità, esse si radicano in una matrice sociale, ideologica, perfino emozionale che ci precede e ci conforma.
Tutte le le categorie, in particolare le bolle relazionali di cui facciamo parte – famiglie, gruppi di amici, reti di contatti più o meno forti – definiscono sempre un “dentro” e un ’“esterno”, il “familiare” e l’“ignoto”.
In verità, molte delle categorie fondamentali in cui ci muoviamo non hanno alcuna base biologica o naturale: sono realtà immaginate, convenzioni intersoggettive sostenute da narrazioni condivise. Basti pensare alla nazione, all’idea di denaro, alle religioni o ai diritti umani. Queste entità, pur non esistendo in senso fisico, acquisiscono forza reale poiché un gran numero di persone vi crede e agisce di conseguenza.
L’ideologia, a un livello profondo, lavora nel silenzio dei presupposti: anche chi si dichiara “realista” non si rende conto di quanto le proprie categorie siano già intrise di presupposti simbolici.
Oggi gli spazi digitali trasformano i nostri rapporti in reazioni immediate: like, commenti rapidi e schieramenti binari ci invitano a scegliere in fretta da che parte stare. Il risultato? Un impoverimento di quella lentezza e profondità che permetterebbero di ridefinire le nostre categorie, incontrando l’altro nella sua alterità.
Perdiamo la capacità di sostare nell’incertezza e nella negatività, e con essa la possibilità di un conflitto generativo. Questa positività forzata schiaccia la complessità del mondo su categorie rigide, in apparenza rassicuranti ma di fatto limitanti.
L’ansia dell’incertezza, tipica della modernità e ancor più acuita nella fase che alcuni chiamano “liquida” o “supermoderna”, produce una continua proliferazione di etichette. Tuttavia, più cerchiamo di moltiplicare le caselle, più sperimentiamo una crescente inadeguatezza: la realtà sfugge a ogni tentativo di incasellarla definitivamente.
Un pensiero complesso deve mettere in dubbio la sicurezza delle categorie chiuse, deve rinunciare all’illusione di un ordine totale, abbracciando invece la lentezza e la necessaria fatica del confronto con l’Altro.