Viviamo in un’epoca in cui la politica sembra più personalizzata e polarizzante che mai. Nel dibattito pubblico, si tende a ridurre le elezioni a una competizione tra personaggi, a un susseguirsi di “vittorie” e “sconfitte” personali.
Non ha vinto Trump le elezioni, perché ciò che vince non è una persona ma una fantasia politica che attira perché promette di ridare senso a un mondo frammentato.
Donald Trump non ha “vinto” le elezioni, così come Kamala Harris non “ha perso”. Le elezioni riflettono il potere delle storie che raccontiamo a noi stessə su ciò che è giusto, possibile e desiderabile nel mondo.
La personalizzazione della politica è una forma di distrazione dal vero potere. Dire che “Trump ha vinto” o che “Harris ha perso” non fa altro che spostare l’attenzione su individui, quando il problema è sistemico perché le elezioni riflettono il successo o il fallimento delle narrazioni che, di volta in volta, sono riuscite a penetrare il consenso pubblico.
La narrazione proposta da una sinistra liberale, con il suo apparato istituzionale e la sua retorica progressista, viene percepita lontana dalla realtà delle persone. Finché questa narrazione non cambia e non affronta le questioni strutturali che causano la disuguaglianza, nessun candidato riuscirà a invertire la tendenza.
Trump non ha vinto e Harris non ha perso. Ciò che “vince” è un discorso di potere. Il potere non appartiene mai interamente a un individuo, ma scorre attraverso reti, istituzioni e discorsi che si auto-sostengono. Criticare Trump o Harris significa mancare il punto: la politica moderna è governata da una serie di discorsi che si costruiscono e si rinnovano su se stessi, indipendentemente dalle persone che li rappresentano.
In ogni epoca, esistono narrative che governano il pensiero collettivo. Queste storie non appartengono a nessunə e non sono il frutto del genio di singoli individui; piuttosto, emergono da una combinazione di circostanze storiche, tensioni sociali e trasformazioni economiche. Ogni grande leader è, in fondo, solo unə interprete temporaneə di un copione già scritto, che riflette le ansie, le speranze e i pregiudizi del proprio tempo.
Negli ultimi decenni, la globalizzazione e la digitalizzazione hanno stravolto i valori e le aspettative delle persone. Mentre una manciata di persone si sono arricchite e hanno beneficiato delle nuove tecnologie, molti altri hanno visto la propria vita e le proprie certezze sgretolarsi. Per queste persone, la narrazione dominante proposta dalle élite liberali — con la sua enfasi sulla diversità, l’inclusione, la sostenibilità e la globalizzazione — non è più una promessa credibile, ma un mantra vuoto, distante dalla loro esperienza quotidiana. Da qui, il crescente successo delle narrative nazionaliste e populiste, che promettono un ritorno a un mondo “più semplice”, dove l’identità e la sicurezza sono percepite come priorità.
In un mondo così complesso e disorientante, le persone cercano storie che diano loro un senso di appartenenza, identità e sicurezza. L’elettorato non vota necessariamente per unə “leader”, ma per la storia che questə rappresenta. E, almeno per ora, la storia raccontata dai partiti populisti è più attraente e rassicurante di quella proposta dalla sinistra liberale.
Questo perché le narrative politiche sono una forma di “atto linguistico”, un tipo di dichiarazione performativa che non si limita a descrivere il mondo, ma lo modifica attivamente. Quando unə leader politicə parla, non si limita a descrivere le proprie idee: le sue parole creano una realtà condivisa tra i suoi sostenitori, che finiscono per vedere il mondo attraverso la sua narrazione. Non si tratta di semplici discorsi, ma di vere e proprie costruzioni di significato, che creano un mondo di interpretazioni condivise. Finché la sinistra non troverà il modo di costruire una narrazione altrettanto potente — una narrazione che si radichi nei bisogni percepiti come reali dalle persone —, continueremo a vedere il successo di chi interpreta meglio la struttura narrativa dominante.
Contrariamente al dibattito che da anni e ancora oggi spesso vedo fare, a mio avviso non si tratta quindi di singoli individui o di leader carismatici, ma si tratta del contesto sociale e delle dinamiche di potere che rendono certe narrative più persuasive e radicate rispetto ad altre. Commentare l’individuo, quindi, è un esercizio sterile: la vera domanda da porsi è se siamo ancora capaci di cambiare la struttura linguistica e istituzionale della politica, di costruire un nuovo sistema di credenze che possa offrire una visione di progresso comprensibile e applicabile per tuttə.
Ciò che le persone cercano è una storia che dia loro senso e stabilità in un mondo digitale e globalizzato che erode i confini e spinge verso l’incertezza.
Se la narrazione populista non è altro che una proiezione delle nostre paure e speranze collettive, il compito della politica è rispondere a questa domanda di significato. Non importa da quale parte provenga: dobbiamo costruire una nuova storia, capace di parlare alle paure e alle speranze delle persone in un mondo trasformato.