Viviamo in un’epoca che esalta la condivisione istantanea, eppure le opinioni sembrano scindersi in blocchi sempre più rigidi. Per comprenderne l’origine, occorre partire da un concetto apparentemente lontano dal dibattito digitale: l’apprendimento hebbiano.
Questa teoria, che prende il nome dallo psicologo canadese Donald Hebb, afferma che i neuroni che si attivano insieme, si rafforzano reciprocamente. Applicato al contesto dei social media, questo principio svela il meccanismo fondamentale della ripetizione di determinate narrazioni e la successiva sedimentazione di convinzioni che appaiono, infine, indiscutibili.
Nelle piattaforme digitali, gli algoritmi di raccomandazione funzionano come un motore incessante di “selezione dell’uguale”. Ciò che assomiglia alle nostre preferenze viene enfatizzato, mentre il diverso viene escluso o penalizzato.
È in questo processo che si materializza una sorta di “ingegneria dei consensi”: un’opinione, inizialmente minoritaria, può velocemente passare allo stato di verità mainstream se incoraggiata dagli algoritmi, innescando effetti a catena che travalicano la volontà del singolo.
Un like, un commento, un retweet: questi gesti diventano mattoncini di un sistema di rinforzo quasi biologico, dove la rete stessa “impara” a somministrare sempre più di ciò che rassicura e allo stesso tempo infiamma.
La società capitalista ha elevato all’estremo questa dinamica, rendendoci schiavə di un desiderio mai sazio: cerchiamo conferme, riconoscimento e soprattutto piacere. Ricevere like produce godimento, un godimento che non fa che alimentare la ripetizione, amplificando la forza di determinate convinzioni e accantonando tutto ciò che devierebbe il flusso dell’uguale.
È un movimento che si autoalimenta: ogni picco di eccitazione mentale consolida — come nel processo hebbiano — la sinapsi digitale corrispondente, spingendoci a reiterare quello stesso contenuto. Così, mentre ci illudiamo di esplorare infinite possibilità, la polarizzazione ci ingabbia in identità sempre più rigide.
Questa logica trascende la mera somma delle interazioni individuali. Gli effetti sono non lineari: basta un piccolo “innesco” di approvazione collettiva per scatenare una valanga di contenuti affini, un’onda che si auto-rinforza in modo quasi irreversibile.
Diventa quindi cruciale comprendere che i social non si limitano a riflettere gusti e opinioni esistenti, bensì li attivano, li organizzano e li scolpiscono in veri e propri blocchi di senso, rafforzando la loro presa psicopolitica sugli individui.
Se l’apprendimento hebbiano è la metafora biologica che descrive il rinforzo sinaptico, i social media ne rappresentano oggi la versione tecnologica: un organismo vasto e mutevole, capace di plasmare desideri e convinzioni al punto da rendere la polarizzazione un aspetto strutturale della vita digitale.
In questa condizione, occorre riflettere su come spezzare il circolo vizioso, sottraendo la mente alle spire di un meccanismo che, con la promessa di offrirci tutto, finisce per ridurci a consumatori di un eterno uguale, incapaci di percepire le sfumature e l’alterità.