Torno a scrivere dopo qualche giorno in cui come tutti ho staccato, passando il tempo leggendo, guardando film, riposandomi. Proprio nell’alternarsi di film e serie TV, riflettevo su come le serie siano il paradigma narrativo del nostro tempo, rappresentando il media che più di tutti sublima la voglia di evasione dalla realtà.
Le serie sfruttano la nostra paura più profonda: la conclusione. Al contrario i film, con la loro durata finita, ci costringono a confrontarci con il limite, un elemento essenziale per l’esperienza umana.
Le serie TV trasformano la narrazione in un flusso continuo, privo di una vera conclusione. Questo formato rispecchia il nostro desiderio di immortalità e la nostra incapacità di accettare la finitezza. Ogni episodio rimanda al successivo, in un ciclo infinito che promette sempre più, senza mai davvero soddisfare.
È una forma di controllo, un meccanismo che tiene il pubblico agganciato attraverso la promessa di un senso che rimane sempre oltre l’orizzonte.
Il film segue una logica temporale lineare, una struttura che conduce a una fine significativa. Questa struttura ci invita a riflettere, a interiorizzare, a trovare un senso. Le serie TV, al contrario, dissolvono il tempo in un eterno presente. Non c’è catarsi, non c’è risoluzione: solo un prolungamento artificiale, un’illusione di continuità.
A differenza del film, che offre un’esperienza estetica conclusiva e catartica, le serie TV funzionano come un ciclo che evita deliberatamente la chiusura (almeno fino a quando questa non diventa inevitabile). Il consumo seriale riflette la nostra incapacità a fermarci, a contemplare e riflettere.
Ho scritto di recente a proposito della nostalgia, e molte serie TV si basano proprio su questa, riportandoci a epoche passate in una dimensione temporale ciclica e familiare. Questo meccanismo non è innocuo: è una strategia di mercato che trasforma il passato in merce, anestetizzando il nostro bisogno di innovazione e progresso.
Viviamo in un eterno presente perché nella società della prestazione non c’è mai una pausa, mai un completamento.
Il film, con la sua durata limitata, è un atto di resistenza contro l’iperconsumo. Accettare la fine significa confrontarsi con il vuoto, con la mancanza, con il limite. La finitezza non è una mancanza, ma una condizione necessaria per l’esperienza autentica. È attraverso il limite che troviamo significato.
Le serie TV, con la loro narrazione infinita, sono il prodotto di una cultura che teme la fine e rifiuta la mancanza. Il film, invece, ci invita a confrontarci con il limite, a trovare senso nella finitezza. Solo accettando la fine possiamo liberarci dalla tirannia dell’infinito e riscoprire il valore dell’esperienza autentica.