Per quanto criticato, “Crisi” di Jared Diamond è uno dei libri più interessanti che ho letto in questi anni, un affascinante parallelismo tra le crisi personali e quelle nazionali.
Quando una persona affronta una crisi, come un lutto o una perdita improvvisa, ciò che conta non è tanto la crisi stessa, ma come la persona la affronta. Questo principio vale anche per le nazioni: consapevolezza, autoanalisi e capacità di adattarsi diventano le chiavi per superare il momento di svolta. In altre parole, il problema non è mai la crisi in sé, ma il modo in cui rispondiamo.
Diamond ci offre un quadro chiaro dei fattori che determinano il successo o il fallimento nel superamento di una crisi. Un’idea che risuona profondamente con la storia dell’umanità è quella dell’adattabilità. Chi si adatta sopravvive, mentre chi resiste al cambiamento spesso soccombe.
Ma Diamond introduce anche altri elementi cruciali: il senso di identità nazionale, la coesione sociale, la capacità di apprendere da altre nazioni e l’abilità di trasformare gli aiuti esterni in strumenti di resilienza piuttosto che di dipendenza. Sono le nazioni che hanno avuto leader capaci di ispirare speranza e unità, piuttosto che paura e divisione, che hanno saputo sfruttare le crisi come trampolini di lancio verso un futuro migliore.
La storia umana non avanza a passi lenti e costanti. Si muove in scatti improvvisi, spesso guidati dalle crisi. Le civiltà che sono emerse dalle crisi passate non erano necessariamente le più forti, ma quelle più capaci di adattarsi.
Nel XXI secolo, le crisi si sono moltiplicate e globalizzate. Le pandemie, i cambiamenti climatici e le instabilità geopolitiche non sono eventi isolati, ma sintomi di un sistema interconnesso in cui le decisioni prese in un angolo del pianeta si riflettono in ogni altro angolo. Per questo la crisi più grande che affrontiamo non è il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale o la scarsa crescita economica, ma quella della nostra immaginazione collettiva.
Le crisi non sono meri eventi, ma processi di disvelamento. Esse rivelano il limite, la soglia oltre la quale un sistema — sia esso personale, sociale o storico — non può più perpetuare se stesso nello stato precedente.
La modernità opera attraverso una logica di ottimizzazione continua, che mira a preservare l’ordine esistente. Le nazioni, come gli individui, si aggrappano alla flessibilità per evitare il crollo, ma raramente mettono in discussione le strutture di potere o le narrazioni che hanno prodotto la crisi.
La crisi, però, non dovrebbe essere ridotta a un semplice problema da superare. Essa è piuttosto un’apertura verso l’Altro, verso ciò che il sistema dominante rifiuta o reprime. Il disvelamento della crisi non avviene attraverso la resilienza, ma attraverso la vulnerabilità. Una nazione, così come un individuo, deve prima accettare la propria esposizione radicale al fallimento, al limite, per poter davvero trasformarsi.
La resilienza, oggi, è celebrata come la risposta ideale alla crisi. Ma essa rappresenta anche una trappola, perché il sistema resiliente è quello che sopravvive senza cambiare realmente. Il messaggio implicito è: “non mettere in discussione il sistema; adattati ad esso”.
Intendiamoci: la flessibilità è una risorsa enorme che abbiamo a disposizione, ma non deve andare a discapito della possibilità di mettere in discussione le logiche alle quali quotidianamente ci adattiamo.
L’attenzione all’adattamento, al recupero e al rafforzamento rischia di trasformare la crisi in un’occasione mancata: così le nazioni – come gli individui – diventano sempre più performative, capaci di assorbire gli urti senza mai mettere in discussione il perché di quegli urti.
Credo però che la vera trasformazione non stia nel miglioramento, ma nell’abbandono. La crisi, per essere fertile, deve rompere la continuità, deve spezzare il circolo vizioso della mera sopravvivenza.
In questo senso, la crisi è un invito a disimparare la resilienza per riscoprire la fragilità. Solo nella fragilità possiamo trovare una nuova forza, una forza che non si misura in termini di sopravvivenza, ma di apertura al diverso e al nuovo.
Prendiamo ad esempio il cambiamento climatico. Ogni crisi ambientale è trattata come un problema tecnico: riduciamo le emissioni, troviamo fonti di energia alternative, miglioriamo l’efficienza. Ma cosa accadrebbe se vedessimo il cambiamento climatico non come una crisi isolata, ma come un sintomo di un sistema economico e sociale che richiede crescita infinita su un pianeta finito? L’adattamento non basta. È necessaria una rottura radicale, una ridefinizione delle regole del gioco.
Uno dei concetti centrali di Diamond è la flessibilità: la capacità di adattarsi è vista come una virtù essenziale per superare una crisi. Ma nella modernità liquida, l’adattamento si è trasformato in precarietà cronica. L’individuo moderno è costantemente costretto a reinventarsi, a cambiare, a “essere flessibile”. Questa flessibilità, celebrata come forza, è in realtà il sintomo di una vulnerabilità diffusa. Ogni crisi ci trova già in uno stato di incertezza, privati di punti di riferimento solidi.
Nonostante tutto, le crisi offrono ancora una possibilità: quella di riflettere su chi siamo e dove stiamo andando. Ma questa riflessione richiede una pausa, un momento di immobilità in un mondo che ci chiede di correre continuamente. Ogni crisi viene rapidamente integrata nel flusso incessante della vita, trasformata in un’opportunità di consumo, di intrattenimento, persino di profitto.
Diamond ci invita a vedere le crisi come momenti di trasformazione. Ma la vera trasformazione richiede un cambiamento radicale: non solo nell’affrontare la crisi, ma nel rifiutare il sistema che la rende inevitabile. In una modernità liquida, questo cambiamento non può essere imposto dall’alto; deve emergere dal basso, dai legami fragili ma ancora possibili tra gli individui.
La domanda non è solo come superare le crisi, ma come vivere in esse, come trasformare i loro non-luoghi in luoghi di senso, dove l’umano, nella sua vulnerabilità e nella sua capacità di immaginare, possa trovare nuove possibilità di esistere. In questo senso, la crisi non è solo un problema: è un’opportunità per riconsiderare chi siamo e chi vogliamo diventare.