Con Giulio Xhaet parliamo di fallimenti e di come riflettere su di essi sia il modo migliore per investire sul proprio futuro.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti nella nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast in cui cerchiamo di raccontare un po’ della complessità del mondo e lo facciamo sempre con nuovi ospiti. Oggi abbiamo il piacere di avere come ospite Giulio Xhaet. Giulio è consulente, formatore e responsabile in Newton della digital business unit, oltre ad essere autore di diversi libri l’ultimo dei quali si chiama Contaminati. Quindi avremo modo di spaziare tra parecchi argomenti, intanto benvenuto Giulio e grazie aver accettato l’invito.”
Giulio Xhaet: “Grazie Joe, grazie mille del coinvolgimento e buongiorno a tutti.”
Joe Casini: “Allora Giulio, il podcast ha una piccola liturgia che comincia con quella che chiamiamo la «domanda semplice» e poi chiudiamo con le domande tra ospiti, ovvero l’ospite della puntata precedente ti ha lasciato una domanda e ti chiederemo, se vorrai, lasciarla anche tu all’ospite della puntata successiva. Per cercare, in qualche modo, di legare gli argomenti, e creare un po’ di contaminazione! Parafrasando la celebre frase del fumetto di Alan Moore «Watchmen» la domanda che ti volevo fare è: chi forma i formatori?”
Giulio Xhaet: “Secondo me lo strumento principe per formarsi, per apprendere, per approfondire le cose è la tecnologia più potente di apprendimento che sia mai stata creata, ovvero i libri di carta. Te lo dice uno che si occupa di digitale, che è appassionato digitale, però i libri di carta sono una tecnologia che il digitale non è ancora riuscita a soppiantare e non perché sia più romantico e bello per la libreria, la gente continua a comprare libri di carta perché sono più fruibili dell’ebook e questo per l’apprendimento di chi vuole apprendere è uno strumento formidabile. A me poi piace – per prendere una parola che lo sai Joe mi è cara – contaminare il libro di carta con tante altre cose. Per la maggior parte delle idee che mi vengono per la formazione, cosa faccio? Prendo il libro, che ne so, adesso mi sono letto un’autobiografia dell’ex batterista dei Nirvana, che mi ha dato molti stimoli, ed estrapolo delle idee che prima metto sul mio Instagram e sul mio LinkedIn con dei caroselli. Quindi questa contaminazione tra libro e social media, dopodiché a volte essendo anche un cantante e un musicista mezzo fallito suono pure durante i video…”
Joe Casini: “Su questo ho la prossima domanda, ti faccio finire, ma era proprio su questo.”
Giulio Xhaet: “Quindi abbiamo libro, carosello digitale e poi a volte prendo anche degli spunti per i testi delle canzoni. A volta capita al contrario, testo di una canzone che arriva da un carosello e poi rimetto il tutto in un libro. Quindi per me chi forma i formatori dipende dal tipo di formatore, però principalmente per me i libri perché quando devo apprendere sono anche abbastanza nerd, introverso, quindi libri e le altre persone che ne sanno più di te.”
Joe Casini: “Siamo partiti già creando interconnessioni, mischiando un po’ di argomenti questo è il posto giusto per farlo e tu sicuramente ce l’hai nel DNA tant’è che stavo dicendo ti volevo fare una domanda. Mi ha colpito molto come nel tuo libro hai raccontato un po’ la tua biografia, una esperienza in particolare che hai vissuto quando suonavi. Nella prima puntata abbiamo avuto come ospite Mauro Ceruti, una delle frasi che Mauro Ceruti ripete spesso e che trovo molto efficace parlando di complessità è che la definisce come un nuovo paio di lenti attraverso il quale vedere il mondo. Mi è venuta in mente quando ho letto il modo in cui ti raccontavi, perché poi ho pensato che a prescindere dal fatto che uno suoni in sala prove con gli amici piuttosto che abbia un contratto importante discografico, se uno si è laureato piuttosto che ha letto solo qualche libro, poi in realtà il percorso di contaminazione è anche un modo in cui vediamo la propria vita, un modo in cui la raccontiamo. Spesso il fatto di trovare delle interconnessioni al suo interno e trovare la complessità della nostra vita parte dal modo in cui noi la vediamo, tu questo nel libro lo racconti in maniera molto efficace, ricollegando un po’ tutte le tue esperienze. Quindi uno pensa spesso a percorsi accademici articolati, ma in realtà è proprio la vita che si intreccia e sta a noi trovare e rileggere questo intreccio…”
Giulio Xhaet: “Un argomento che mi sta appassionando, scusa la battuta sul gruppo e le passioni personali, mai come oggi c’è la necessità di riscoprire, di capire come mettere a sistema ciò che ci interessa, che ci appassiona al netto del lavoro con quello che noi facciamo mentre studiamo o mentre lavoriamo. Proprio perché il mondo ha questa complessità molto variegata, come un prisma che può riflettere in maniera molto diverse e varie. A volte tendiamo ad avere una mentalità molto lineare, del tipo «io studio A e faccio A, faccio lo stage A» e va bene e vado avanti così maniera lineare. Il mondo è meno adatto a premiare, a valorizzare per persone di questo tipo, poi in Italia magari tendiamo ancora ad avere la mentalità diciamo del posto fisso, una mentalità che andava bene tanto tempo fa. La digitalizzazione prima, la pandemia e una guerra adesso hanno invece mostrato che le persone che sanno meglio vivere, intraprendere questa contemporaneità sono delle persone che vivono esperienze molto variegate. Il punto è che oggi nel bene o nel male, non è magari più facile intraprendere cose nuove, ma è di certo più fattibile e questa fattibilità rende le possibilità molto interessanti per chi sa cogliere le opportunità. Io dico sempre che il «contaminato», cioè la persona interdisciplinare, non è quella persona che fa trenta cose insieme ma è una persona che o cambia ogni tanto alcune delle cose che fa, cambia settore, cambia lavoro, cambia studio, ha passione per le cose nuove oppure è la persona specialista che quindi ha una dorsale di una passione della propria vita e quindi
vuole fare quello però ogni tanto alza gli occhi ed è curioso di cose diverse che poi riporta nella sua dorsale principale. Quello che è pericoloso per una persona che vuole divertirsi, vuole eccellere, vuole fare qualcosa di particolarmente significativo e dire «io faccio solo una cosa nella mia vita e approfondisco solo quello» perché quello lo sanno fare molto bene delle creature che non sono umani, che sono gli algoritmi dell’intelligenza artificiale. Noi abbiamo un super potere diverso che è quello di essere lì, di poter unire i puntini da mondi diversi e poter osservare la realtà da prospettive diverse. Spesso mi chiedono «te Giulio lavori da 10 anni nel mondo del digital marketing, mi consiglieresti un bellissimo libro per migliorare il digital marketing?» e gli dico di non leggere libri di digital marketing! Leggiti Kafka, leggiti Dostoevskij, leggiti la biografia del cantante X, prendi un libro che sembra non c’entrare niente e rimetti dentro in qualche modo quello che impari. Come diceva un certo Picasso quelli bravi non copiano perché rubano da un contesto diverso.”
Joe Casini: “In qualche modo parlavi della iperspecializzazione, c’è anche un tema che è quello di avere un adattamento troppo rigido all’ambiente, all’ambiente lavorativo, come dicevi tu, ovviamente ognuno di noi può scegliere di viversi la vita o viversi il proprio percorso professionale come meglio crede e con le aspettative che uno vuole. Se uno ha come aspettativa fare lo stesso lavoro per trent’anni, può lecitamente perseguirla ma chiaramente poi si deve scontrare con la capacità di portare avanti quel percorso in maniera efficace in un contesto che cambia in maniera sempre più rapida. Quindi la domanda che ti volevo fare è: c’è anche un valore diciamo «abilitante» nella formazione, nella cultura? Si parla spesso di tecnologia abilitante, poi in realtà gli strumenti culturali sono quelli che più ci danno la possibilità di esprimere il nostro massimo grado di libertà. C’è la possibilità effettivamente di fare il più possibile, quello che vogliamo se vogliamo cambiare, avere delle opportunità. Oggi c’è un tema che è quello siamo effettivamente formando i lavoratori ad essere più possibile liberi, e ad essere di conseguenza più liberi anche come cittadini ma qui il discorso poi si allarga. Essere il più possibile liberi vuol dire vivere serenamente e consapevolmente in questo mondo con cambiamenti sempre più frenetici. È un tema che anche nella tua esperienza professionale trovi?”
Giulio Xhaet: “Allora sul fatto che bisogna avere una cultura e saper esprimere un bagaglio, non solo di competenze tecniche hard, ma anche di fantomatiche soft skill, quindi capacità trasversali, cioè saper capire l’interlocutore, comunicare, ascoltare, dare empatia, saper risolvere i problemi, assolutamente sì. Il punto è che nelle aziende si investono tanti soldi e tante parole per dire «dobbiamo sviluppare le soft skill, dobbiamo sviluppare una cultura diversa» e poi non si fa un beneamato cazzo! La capacità di mettere davvero a terra e di voler cambiare su questo, cioè di dire non importa tanto solo quanto fai con le micro competenze che mi servono in azienda, ma anche che tu ti sviluppi come persona per migliorare l’ambiente lavorativo e migliorare in definitiva il business… tutti a parlare, poi quando si torna negli uffici dopo i corsi di formazione si dice «sì vabbè, abbiamo scherzato, adesso si ritorna a lavorare». Un po’ come lo smart working – non dappertutto eh, adesso sto generalizzando io. L’incapacità è quella di mettere a terra il potenziale che abbiamo, siamo la generazione più istruita di sempre, il punto è che manca tanto la capacità di comprendere davvero appieno quello che si fa, perché non c’è la possibilità di mettere a terra. Come si mette a terra ad esempio una soft skill in maniera forte collegandola con il lavoro? C’è un modo, io ritorno alle passioni personali, mi rendo conto sempre di più che le passioni – e per passioni personali intendo quella cosa che fai al mattino di domenica senza che nessuno ti chieda di farlo, senza che nessuno ti paghi. A volte è collegata con il tuo lavoro, a volte no, quando non è collegato al tuo lavoro è molto interessante vedere che quella cosa lì ti aiuta. Parti dal tuo curriculum o dal tuo profilo LinkedIn: ad esempio sei appassionato di corsa, ecco quella corsa lì cosa ti da nel lavoro? Viene fuori che il running è molto collegato nella perseveranza al lavoro. Io sono abituato tutti i giorni andare a correre e faticata dopo faticata portare a casa l’obiettivo che può essere la maratona, che può essere un’altra cosa, guarda caso il mio collega Massimo Targa – che saluto – è il perseverante che dice «devo venderti una cosa» e alla fine ce la fa perché è uno metodico che, come nella corsa, tutti i giorni fa quello che deve fare ed è un valore pazzesco. Il punto è che molti ragazzi mi dicono «eh ma i ragazzi giovani hanno paura di perdere il treno, hanno paura di fare l’errore, hanno paura di fallire» molto di più che la nostra generazione, quella dei nostri genitori. Il mondo era più semplice diciamo la verità, però loro hanno una paura fottuta. «Ah devo fare la Bocconi, non posso perdere l’anno, oddio, ho 23 anni non ho più tempo, ho perso sei mesi della mia vita, ormai sono fallito». Io ho cominciato a lavorare a 29 anni, dopo Scienze della comunicazione che veniva chiamata «scienze delle merendine» all’epoca, dopo aver fallito clamorosamente nel mondo della musica. Ci sono ragazzi di 22 anni che si sentono falliti perché hanno perso sei mesi a fare una certa cosa… è proprio sbagliato il concetto iniziale, tu devi poterti mettere in gioco, devi poterti appassionare a cose che non sono direttamente collegate a quello che fai, perché proprio questo retroterra culturale di passioni che ti permetteranno di eccellere rispetto agli altri. C’è questo bel libro di David Epstein, non l’ho citato in Contaminati perché non l’avevo ancora letto, che si chiama «Generalisti» e lui parla del periodo di sampling, in cui è giusto che una persona faccia cose molto diverse per poi esprimere al meglio il suo talento da qualche parte. Lui fa l’esempio del tennista Federer, il quale prima di arrivare al tennis ha fatto in gioventù un sacco di altri sport e quindi gli dava la capacità di avere una visione molto più ampia di chi era partito solo con il tennis.”
Joe Casini: “Questa tendenza a raccontare l’esasperazione, è anche la conseguenza forse di questo mondo semplice da quale proveniamo, un mondo più semplice dove c’erano delle procedure da seguire, procedure che erano anche rassicuranti. Ci sono persone che hanno bisogno di sapere che se fanno tutto bene in qualche modo la vita gli andrà bene, in questo oggi forse la formazione scolastica non funziona più. Tu nel libro porti molti esempi, da quello storico piuttosto noto del sistema scolastico finlandese, ma anche sistemi di formazione universitari, nuovi tentativi che in qualche modo si stanno facendo, non di fare degli aggiustamenti ma proprio di ribaltare il paradigma. C’è anche questo tema, siamo in un momento in cui forse abbiamo proprio cappottare i nostri paradigmi perché li abbiamo esasperati ad un punto in cui forse non sono più funzionali.”
Giulio Xhaet: “Sono molto d’accordo, guarda al netto della necessità di contaminare, ibridare, mettere insieme, anche la teoria e la pratica ad esempio. Gli americani sono fin troppo pratici, noi siamo fin troppo teorici, una questione culturale su come pensiamo sia giusto apprendere, ma al netto di questo voglio puntare l’accento su un altro argomento che sto studiando molto, fuori di retorica perché anche questa parola è diventata una parola come «resilienza» che diventa talmente usato e abusato e vuol dire tutto e niente… ogni volta che dico resilienza, dieci HR delle risorse umane muoiono! Esattamente come quando dico «fallimento» e dicono «ah! l’importante è saper fallire bla bla bla» poi vado a fare i corsi sul fallimento nelle aziende e mi dicono che quando fallisci davvero vieni licenziato. Questo atteggiamento parte del retroterra culturale scolastico, per cui se tu fallisci un esame cioè, nel senso che vai proprio male, quindi una cantonata, è di per sé sbagliato. Io invece penso – e su questo vi consiglio il libricino «Il magico potere del fallimento» di Charles Pepin, che ha un titolo orribile però dietro il titolo invece c’è molta roba l’ha scritto Charles Pepin – che il fallimento sia una necessità, una priorità, un po’ come la contaminazione. Noi abbiamo bisogno di fallire, di fallire in maniera ragionata, ma di imparare dal fallimento. Lui dice che si impara più da un fallimento ben gestito e ragionato che da venti vittorie. Quando uno da piccolino fallisce, perché fallisce? Perché è uno stupido? No, perché si mette tipicamente in una situazione rischiosa, sfidante, sta facendo qualche cosa che è al limite delle sue possibilità, si esce dalla famosa zona di comfort – altra parola super abusata. Se io non fallisco mai non è che sono un genio, anche il genio fallisce. Anzi gli Elon Musk, gli Steve Jobs, tanto celebrati, se vai a vedere le loro biografie hanno preso tante di quelle cantonate ed è proprio per questo che sono arrivati poi dove gli altri non sono arrivati. Cosa succede? Tipicamente mettiamo le persone in una situazione un po’ da iper facilitazione, massimo risultato col minimo sforzo. Il fatto che io sia stato bocciato per colpa mia in terza superiore, fuori corso all’università, la band che è fallita a 29 anni, è una mazzata emotiva che non ti dico, sono stato licenziato nel mio primo lavoro per enne motivi, il primo prodotto di formazione innovativa un flop colossale, questo è stato il mio master di vita che mi ha permesso di fare le cose che faccio oggi. Fra tutti il fallimento della band, perché io pensavo fosse quella la mia strada e dovermi rialzare e capire chi sono o, al netto della chitarra, cosa so fare… dopo quella cosa lì sono anche cambiato a livello di personalità, sono meno arrogante, i miei migliori amici mi hanno detto «tu sei diventata una persona migliore dopo che è capitata quella cosa li». Tu fallisci e quello è il modo per capire chi sei, una persona che non fallisce mai io non lo assumerei mai, perché vuol dire che non ha il coraggio e la capacità di spostarsi fuori dalle sue zone di comfort. Sul curriculum, profilo LinkedIn, biografia, dico sempre di provare a redigere il vostro almanacco dei fallimenti, batoste più importanti e lesson learned, quella roba lì voglio vedere quando uno mi viene a fare un colloquio.”
Joe Casini: “Mentre parlavi ho ripensati a tutti i miei primi fallimenti e sì, effettivamente se hai la capacità di capire dove hai sbagliato, se qualcuno te lo fa vedere dove hai sbagliato ti danno poi dei margini di crescita pazzeschi. Mentre poi mi venivano in mente gli avvocati, quelli che hanno i success rate altissimi, soprattutto in America sono molto fissati con queste cose, probabilmente perché scartano tutti i casi un po’ più impegnativi! Quindi alla fine la capacità ovvero la possibilità di fallire è uno strumento di crescita pazzesco, questo è un concetto molto interessante proprio dal punto di vista evolutivo e adattativo. Parlando di contaminazione ti volevo domandare perché è importante contaminarsi? Per un’azienda che tipo di lavoro si può fare con i propri dipendenti per promuovere questa cultura della contaminazione?”
Giulio Xhaet: “L’importanza è legata, soprattutto alla capacità di adattarsi al nuovo o di anticipare il nuovo, di creare il nuovo, quindi di innovare davvero. La verità è che la maggior parte dell’azienda italiane, tra quelle che hanno più liquidità, quelle che hanno le torri qua dietro, uno che fa una torre come la torre Unicredit, la torre Unipol, chi sono quelli che fanno queste robe mega miliardarie? Le banche, le assicurazione e le società di consulenza. Queste, per adesso, sono ancora tenuti a bada un po’ dalle rivoluzioni digitali eccetera, la vera verità è che fanno il loro cazzo di lavoro uguale sempre e le modalità con cui vengono premiati o non vengono premiati… alla fin fine fanno i miliardi di corsi innovazione per fare le cose, è come il Gattopardo, cambiamo tutto per non cambiare niente! Non c’è stata una vera necessità, per ora, di cambiare così tanto anche perché non sono ancora arrivate tanto le nuove generazioni. In altri settori, vedi il settore della GDO quando Carrefour ha capito che Amazon era il vero concorrente… ci sono delle rivoluzioni, nel bene nel male, che stanno accadendo nelle acque di alcune aziende. Alcuni settore muoiono, alcune aziende muoiono. Un altro libro, quello del fondatore di Netflix Reed Hasting ed Erin Meyer che si chiama «L’unica regola è che non ci sono regole», che parla della storia di Netflix è pazzesco. Lui dice la gente non ha capito che noi non siamo diventati Netflix perché abbiamo l’algoritmo più forte, gli ingegneri più fighi, anche quello ma è soprattutto una questione di cultura aziendale. C’è proprio un termine che si chiama «densità del talento», ogni persona deve essere bravissima in quello che fa, dimostrarlo e poi deve collaborare bene con gli altri. Collaborare vuol dire mettere le proprie competenze a disposizioni degli altri e viceversa, cioè contaminarsi. Deve partire proprio da un’abitudine e deve essere un paradigma la contaminazione, cioè vuol dire che non c’è neanche bisogno che te lo dica, è così. Se tu Joe mi arrivi e mi dici oggi facciamo un corso sulla contaminazione, ma cosa vuol dire? La gente fa il venerdì dell’innovazione e Reed Hastings dice «ma che è sta cagata? Il venerdì dell’innovazione? Da noi si innova dal lunedì al lunedì» ed è normale farlo. Quindi deve essere proprio un’abitudine che prendiamo fin da piccoli, visto però che non c’è questa abitudine si fanno i corsi però il corso deve diventare qualcosa che è una miccia, una scintilla che innesca qualcosa che è l’abitudine a fare le cose sempre così, altrimenti rimane un giochino tipo «ah! L’ho fatta una volta e poi dopo due giorni mi sono già dimenticato». Non so se ti ho risposto alla domanda però.”
Joe Casini: “Alla grande. Arriviamo al momento quello che ti anticipavo delle domande, quindi partiamo con la domanda che ti hanno lasciato gli ospiti della puntata precedente. Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Azzurra Rinaldi e Isabella Borrelli e in particolare abbiamo chiacchierato sul tema della advocacy, sul tema dell’uso dei social per fare advocacy in termini di diritti civili, in particolare i temi gender, legati alla cultura gender. Loro sono rimaste colpite in particolar modo dal libro precedente che hai scritto sulle nuove professioni digitali e quindi la domanda che ti hanno lasciato è: queste nuove professioni digitali come possono favorire e che impatto hanno avuto proprio sui temi legati sia alla advocacy sia a promuovere, in qualche modo, la forza lavoro femminile. Sono professioni che spesso, pensiamo all’informatica, sono molto maschili. Come queste nuove professioni sul tema gender impattano e possono promuovere un cambiamento?’
Giulio Xhaet: “Sarebbe da rispondere in maniera molto esaustiva, cerco di essere stringato, visto che il tempo sfugge. In realtà storicamente se andiamo a vedere prima della seconda guerra mondiale, i primi computer che venivano elaborati, i primi software erano un lavoro delegato alle donne, l’uomo si occupava dell’hardware, della parte «dura», le donne che avevano grande pazienza e capacità anche di collaborare eccetera facevano il software che veniva vista un po’ come la parte magari meno importante. Cosa succede? Un software diventa sempre più importante, ma soprattutto il software viene utilizzato a livello di business, è la parte che diventa più cospicua per i videogiochi. I primi videogiochi sono videogiochi di guerra, quindi sempre di più diventa un mondo maschile, ma non perché le donne non fossero capaci o adatte e fino a oggi in cui il mondo dalla Silicon Valley in poi tutte le grandi aziende startup, i fondatori chi sono? Bianchi, caucasici, eterosessuali, di questo tipo qua. Alla fine il digitale è una grande opportunità, una figata, però vorrei avere una maggiore diversity, una maggiore contaminazione anche nel digitale, vorrei vedere delle startup che siano anche di donne, di culture diverse eccetera. Devo dire che ultimamente comincio a vedere delle startup molto interessanti che sono fondate da donne e le vedo che c’è un tocco femminile diverso. Ti faccio un esempio su tutti in Italia, la startup Factanza Media, che fa divulgazione di stampo giornalistico sui social media con modalità nativa social ed è molto interessante vedere che dai giornalisti questa cosa viene ancora un po’ osteggiata e non capita. L’altro giorno parlavo con una giornalista che è più giovane di me che lavora il Corriere della Sera e se le parli di Factanza Media per lei è il diavolo, quella non è vera informazione… io dico guarda che non è il nemico, o tu o loro, una persona dovrebbe poter integrare, leggersi il Corriere anche cartaceo e andare a leggersi Factanza che sono due modalità diverse, ma una non esclude l’altra. E no, quello «depaupera l’informazione» e quindi per tornare al discorso le nuove professioni digitali abilitano certamente la possibilità delle donne di poter entrare in contatto col mondo del lavoro, anche perché molto spesso te la puoi fare da solo questa professione, non devi aspettare che arrivi l’azienda a darti il contratto. Quindi alle ragazze in ascolto dico: non per forza dovete aspettare che qualcuno vi dia un lavoro, cominciate a crearlo, non facendovi la startup ma gestendo la pagina social per voi o per qualcun altro e capendo davvero come come si fa, quindi è molto do it by yourself.”
Joe Casini: “Tra l’altro seguendo il tuo consiglio se qualcuno si fosse perso le puntate precedenti e con l’occasione volesse recuperarle abbiamo avuto come ospite per esempio Daniela De Stefano CEO di Unobravo che è una piattaforma per fare psicoterapia online che in questi due anni veramente ha avuto un impatto enorme, abbiamo avuto Donata Columbro che si occupa di educazione sempre scientifica e quindi insomma, effettivamente colgo al balzo il tuo consiglio. Ci sono tantissimi casi che si posso andare veramente a prendere come modelli per trovare a portare una maggiore diversità e quindi una maggiore ricchezza. A questo punto però Giulio è il tuo momento per lasciare una domanda all’ospite della puntata successiva, restiamo sempre in ambito social e divulgazione scientifica perché nella prossima puntata faremo una chiacchierata con Luca Romano che online è meglio conosciuto come L’avvocato dell’atomo ed è un divulgatore scientifico che lavora moltissimo soprattutto su Instagram facendo divulgazione scientifica sul tema del nucleare, riprendendo tutto ciò che sono anche i luoghi comuni su questo tema che è un tema non soltanto sempre molto attuale ma anche uno di quei temi che fanno uscir fuori molti dei nostri bias e molto polarizzanti. Quindi parleremo sicuramente di nucleare ma parleremo anche un po’ di come i social contribuiscono da una parte a polarizzare, dall’altra ma possono anche contribuire un pochino a fare divulgazione e stemperare questa polarizzazione. Non so se in tutto questo vuoi lasciare una domanda per Luca in modo che gliela possa portare e ci dia spunti nuovi sui quali riflettere.”
Giulio Xhaet: “Guarda ho una domanda che visto che tratta il tema social è una cosa di cui parlo e mi piacerebbe avere l’opinione di un’altra persona che naviga sui social ma con qualche competenza diversa e così importante e partendo dall’assunto, non so se ti ricordi, Jean Paul Sartre filosofo francese che disse «l’inferno sono gli altri» perché gli altri ti giudicano. I social da un certo punto di vista sono gli amplificatori di giudizio degli altri un sacco di persone, quindi sono amplificatori di inferni da un certo punto di vista eppure io ho visto nella mia vita che i social media diventano in certe condizioni anche degli amplificatori di saggezza e quindi voglio chiedere al tuo prossimo ospite: I social media sono più amplificatore di inferni, più amplificatori di saggezza come gestiamo questa roba?”
Joe Casini: “Grazie mille Giulio, porterò domanda a Luca nella prossima puntata del podcast. è finito il nostro tempo anche per oggi, quindi godiamoci la domenica, quindi con tutte le cose belle che ci riempie a proposito di contaminazioni e passioni. Ringrazio Giulio Xhaet autore del libro Contaminati per essere stato con noi.”
Giulio Xhaet: “Grazie mille davvero per la bella chiacchierata, è stato un piacere. Un bacio a tutti.”
Joe Casini: “Il piacere è nostro e come al solito l’appuntamento è tra due domeniche con il podcast e domenica prossima la newsletter. Tutte le informazioni le trovate su mondocomplesso.it. Buona domenica.”