Nell’era dell’informazione, l’umanità è inondata da dati come mai prima. Ci troviamo a navigare in un mare di numeri, fatti, statistiche e storie, cercando di trarne un senso. Eppure, per ogni bit di dati che riusciamo a catturare, un volume esponenzialmente più grande sfugge alla nostra vista. Questi sono i cosiddetti “dark data”, i dati che generiamo ma non utilizziamo, o che ignoriamo, perdiamo o nascondiamo. Questi dati sono l’oceano oscuro in cui galleggia l’iceberg della nostra conoscenza.
Poniamo ad esempio di dover aumentare le vendite di un supermercato, potremmo cominciare con l’analizzare i dati degli scontri e gli indici di rotazione dei prodotti. Il problema è che tutti questi dati hanno a che fare con chi già compra, mentre per aumentare le vendite dovremmo lavorare principalmente su chi non compra! Ecco, in questo caso siamo in una situazione di dark data, perché dobbiamo in qualche modo utilizzare dati incompleti, non ancora analizzati, segreti oppure addirittura non (ancora) raccolti.
La quantità massiccia di dark data è in sé un’espressione della complessità. I sistemi complessi producono una quantità di dati che supera di gran lunga la nostra capacità di analizzarli o anche solo di immagazzinarli. Così, gran parte di questi dati rimane “oscuro”, non sfruttato, al di fuori della nostra vista. Insomma, i dark data rappresentano implicitamente la nostra incapacità di prevedere o comprendere pienamente i sistemi complessi. Non importa quanti dati raccogliamo, esiste sempre un volume di dati che sfugge alla nostra vista, che potrebbe contenere informazioni cruciali per la comprensione del sistema.
Tuttavia questo non significa che dovremmo ignorare i dark data, al contrario dovremmo farne la premessa necessaria a qualsiasi nostro ragionamento e cercare di sfruttarli per sondare le profondità di questo oceano oscuro, anche grazie alla potenza del machine learning e dell’intelligenza artificiale. Anche se non possiamo sperare di illuminare completamente il buio, possiamo almeno cercare di capire meglio la sua natura.
🔦 Illuminare le ombre dell’innovazione
Curiosamente, credo che la sfida dei dark data rispecchi un altro problema chiave per le aziende oggi: la mancanza di diversità. Proprio come i dark data, la diversità nelle aziende è spesso trascurata o sottovalutata, eppure può essere una fonte incredibile di innovazione e di crescita.
La diversity culture non riguarda solo il garantire parità di opportunità. Riguarda anche il riconoscimento e l’apprezzamento delle diverse esperienze, prospettive e idee che ogni individuo porta in un’organizzazione. Un gruppo di lavoro diversificato può portare una vasta gamma di soluzioni ai problemi, generare idee più creative e offrire una comprensione più profonda dei vari segmenti di mercato.
Ecco come vedo il legame tra dark data e diversity culture: entrambi rappresentano risorse preziose che possono rimanere inutilizzate se non vengono riconosciute e gestite correttamente. Entrambi richiedono un cambiamento di mentalità per riconoscere il loro valore: dobbiamo vedere i dati non utilizzati come un’opportunità, non come un onere; dobbiamo vedere la diversità come un vantaggio, non come un ostacolo.
L’illuminazione dei dark data e la promozione della diversity culture possono sembrare due sfide distinte, ma credo siano in realtà strettamente connesse. Per sfruttare al meglio i nostri dati, dobbiamo avere una forza lavoro diversificata che possa vedere le cose da diverse prospettive. Allo stesso modo, per promuovere la diversità, dobbiamo utilizzare i dati a nostra disposizione per capire come creare un ambiente inclusivo e accogliente.
⚖️ La necessità della prudenza e la presunzione di discriminazione
Non solo, per poter affrontare entrambi i temi è necessario partire da un atteggiamento di incertezza – o meglio di certezza socratica – ovvero dal presupposto che non sappiamo, che non abbiamo tutti i dati, né tutti i punti di vista (e di certo, non “quello giusto”).
La diversity culture in molte organizzazioni rimane un “dark data” in sé. Nonostante gli sforzi per promuovere la diversità e l’inclusione, molte organizzazioni non hanno una chiara comprensione di come la discriminazione si manifesta all’interno delle loro strutture, o di come le diverse identità e esperienze dei loro dipendenti influenzano le dinamiche di lavoro.
Questa ignoranza non è neutra. Non sapere se si sta discriminando non esime dall’essere discriminanti. E qui entra in gioco il principio di prudenza. Questo principio, comunemente utilizzato in campo finanziario, suggerisce che in caso di incertezza dovremmo optare per l’ipotesi più cauta.
Se applichiamo questo principio al contesto della diversity culture, l’implicazione è chiara: se non sappiamo se stiamo discriminando, dovremmo comportarci come se lo stessimo facendo. Questo non significa presumere la colpa senza motivo, ma piuttosto riconoscere l’importanza di essere proattivi nel cercare e affrontare la discriminazione potenziale.
Prendiamo ad esempio i dati sugli indici di diversità nelle posizioni di leadership. I “bright data” ci dicono che le donne che ricoprono posizioni di vertice nelle aziende sono tra il 20% e il 30%, i “dark data” ci dicono che statistiche analoghe per altri aspetti (come ad esempio l’orientamento sessuale o religioso) spesso neanche esistono. Se non abbiamo dati precisi sulla rappresentanza delle minoranze nelle posizioni di leadership, allora dovremmo dare per scontato che ci sia un problema e iniziare a cercare modi per migliorare. Se non sappiamo se le politiche aziendali stanno avendo un impatto negativo sui dipendenti di un determinato gruppo, dovremmo dare per scontato che possa essere il caso e iniziare a esaminare le politiche in questione.
È una sfida, ma è anche un’opportunità. È un promemoria della nostra umiltà di fronte alla complessità del mondo. Ma è anche un invito a spingere i confini della nostra conoscenza, a utilizzare le nuove tecnologie per esplorare l’ignoto. Solo allora potremo sfruttare appieno il potenziale dei nostri dati e delle nostre persone.
Nell’era dell’informazione, abbiamo l’opportunità – utilizzando le parole di T.S. Eliot – di “disturbare l’universo” come mai prima. Quindi, non temiamo il buio. Al contrario, immergiamoci in esso. Chissà quali meraviglie possiamo scoprire?