Con Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma, parliamo dell’ossessione tutta italiana per il cibo e le sue conseguenze negative sulla nostra identità nazionale.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti alle puntata 56 di Mondo Complesso. Il podcast in cui cerchiamo di raccontare la complessità del mondo in cui viviamo che è legata al fatto che spesso tendiamo ad isolare fenomeni e argomenti perchè facendo così ci risulta più semplice provare a studiarli ma la realtà è che tutti i fenomeni sono interconnessi, a volte alcuni fenomeni acquistano dei significati particolari che in precisi momenti storici ci possono anche sorprendere. Proprio per questo motivo oggi sono molto contento di poter fare una chiacchierata con Alberto Grandi. Quindi per prima cosa benvenuto!”
Alberto Grandi: “Grazie dell’invito.”
Joe Casini: “Alberto è professore all’università di Parma di storia del cibo ma anche di storia dell’integrazione europea. è autore di diversi libri e podcast, un podcast molto noto di Alberto è DOI, denominazione di origine inventata, ma anche l’ultimo libro ‘la cucina italiana non esiste’ che è interessante proprio perché è andato a toccare un tasto che in questi anni è molto attuale ovvero come dietro al cibo si nascondano le nostre identità che sono un tema delicato. La prima domanda è la cosiddetta domanda semplice: che cos’è la cucina italiana?”
Alberto Grandi: “In realtà è tutt’altro che una domanda semplice. Se dovesse rispondere in maniera asettica direi che la cucina italiana è una cucina che come tutte le cucine del mondo, perché ogni paese e ogni cultura ha una propria specificità gastronomica, è un pezzo dell’identità e della cultura di un paese. Quello che è successo in Italia negli ultimi 50 anni in particolare è che la cucina è diventata progressivamente l’elemento identitario più forte per noi italiani fino a diventare l’unico elemento identitario che ci qualifica come paese e come cultura e questo è sicuramente grave perché l’Italia è ben altro. L’altro elemento, secondo me, di fondamentale importanza è che noi ci siamo raccontati una storia ben diversa da quella che è in realtà la storia della cucina italiana ovvero è una storia che fino a pochi decenni fa era una storia di povertà, di scarsi ingredienti, di scarsa qualità, di scarsa riconoscibilità, che aveva tutta una serie di elementi poveri nel senso non solo economico ma anche dal punto di vista culturale che hanno molto spesso limitato anche lo sviluppo poi dopo fuori dai confini. Sono successe tante altre cose, però quello che in qualche modo a me piace richiamare è appunto come la cucina italiana fino agli anni 70 fosse una cosa di ben poco conto per gli stessi italiani molto spesso, e quindi questo è un po’ una cosa che va ricordata. Non so se ho risposto alla domanda perché è una domanda terribile.”
Joe Casini: “Non solo hai risposto ma hai già toccato diversi temi sui quali ora ti volevo fare un po’ di domande ma volevo partire da quello che poi è anche uno degli aspetti che più mi incuriosiscono nella tua attività. Tu hai citato la carbonara, l’amatriciana, io tra l’altro sono romano e una delle cose che a Roma si dice è ‘vedi la cucina papalina’, ‘Roma il popolo povero’, per cui se vedi la carbonara nei secoli è stata una ricetta basata su questi alimenti poveri e c’è questo modo di raccontare un po’ il piatto. Tu invece racconti spesso come anche cibi che per noi sono appunto secolari nel nostro immaginario poi in realtà hanno storie molto recenti. La domanda che ti volevo fare è: Mi dici i tre cibi che ogni volta che tu racconti l’origine dall’altra parte c’è qualcuno che salta sulla sedia?”
Alberto Grandi: “La carbonara è diventata ormai un elemento quasi macchiettistico. Ormai la cosa fa molta impressione perché in realtà la storia della carbonara, non è del tutto chiarita però, ne nei suoi elementi costitutivi si sa che fino alla seconda guerra mondiale non c’era e che il contributo da parte delle truppe americane è stato fondamentale e che la prima ricetta viene pubblicata negli Stati Uniti e non in Italia. Ci sono tutti elementi oggettivi che fanno di questa ricetta una cosa ben diversa da come ce la siamo raccontata fino a poco tempo fa. Questo ormai è sdoganato, direi consolidato, ci ha scritto un libro molto bello Luca Cesari sulla storia della pasta e c’è un capitolo dedicato alla carbonara quindi insomma ci sono elementi oggettivi, però ogni volta che uno dice questa cosa c’è un romano che si butta nel Tevere, ogni volta che un qualcuno mette la panna nella carbonara come faceva Gualtiero Marchesi questa cosa ovviamente crea scompensi cardiaci a qualche abitante della capitale. Quindi questo è il caso più clamoroso, l’altro caso clamoroso è la pizza perché è nata a Napoli, nessuno mette in discussione questa cosa, ma così come nessuno mette in discussione il fatto che sia nata a Napoli nessuno dovrebbe mettere in discussione il fatto che fino alla fine dell’800 la pizza era un prodotto poverissimo del quale gli stessi napoletani si vergognavano perché questo è il tema forte cioè uno può raccontarsi tutto quello che vuole ma tutti i testimoni, sia quelli che arrivano da fuori Napoli, sia i napoletani stessi, la descrivono in tanti modi diversi ma sono tutti concordi nel dire che è una grandissima schifezza, è una cosa immangiabile che serve solo a riempire la pancia dei napoletani più poveri, di quelli che non hanno alternative, quindi insomma stiamo parlando di un prodotto ben diverso da quello che mangiamo oggi e che è figlio ancora una volta di un’evoluzione che ha avuto un pezzo importante della sua storia non a Napoli ma negli Stati Uniti dove questo prodotto si è standardizzato si è arricchito e ha avuto un’evoluzione strutturale e continua ad averla perché questo è l’’altro elemento perché noi abbiamo ormai questa tendenza incredibile a cristallizzare le ricette ma in realtà le ricette cambiano perché cambiano i gusti, cambiano gli ingredienti, cambiano le tecniche eppure noi ci raccontiamo che la pizza si fa così dal 700, che la carbonara la mangiavano i carbonari che venivano dall’Abruzzo, insomma ci raccontiamo queste storie che non hanno nessun senso e basterebbe anche fare un piccolo sforzo di memorie perché appunto sulla carbonara Io mi ricordo quando era assolutamente la pancetta, il guanciale qualcuno ce lo metteva ma era una cosa assolutamente rara, quando l’uovo stracciato era usuale e lo stesso la pizza cioè basta andare 20 anni fa gli impasti erano completamente diversi, le lievitazioni erano diverse, i condimenti erano diversi, quindi non c’è nulla di clamoroso in questo. L’altro esempio è il Parmigiano Reggiano, è un prodotto che negli ultimi 50 anni ha conosciuto un’evoluzione straordinaria, clamorosamente positiva è cambiato strutturalmente e anche qui se noi ci raccontiamo che il parmigiano che mangiamo oggi è quello che mangiava e che descriveva Boccaccio cioè quindi 800/900 anni fa ci raccontiamo una storia che dal punto di vista storico non ha nessun fondamento e fra l’altro io lo continuo a dire ai miei amici del consorzio del parmigiano: non ditemi che fate il formaggio come 1000 anni fa, ditemi che lo fate da 1000 anni, perché se lo fate come 1000 anni fa per me è un motivo per non comprarlo se invece voi mi dite che da 1000 anni state sul mercato riuscite ad adeguare le vostre tecniche alle mutevoli condizioni del mercato e dei gusti dei consumatori questo secondo me è un elemento di qualità, è un elemento fondamentale. Le cose di 1000 anni fa tendenzialmente non erano buone ed erano anche poco sicure, mettiamola così, anche poco digeribili e quindi sarei per esaltare invece la continua innovazione perché il disciplinare del Parmigiano Reggiano è uno di quelli tra i prodotti dop europei che cambia più frequentemente quindi vuol dire che c’è sempre la capacità di stare sul mercato e di adeguare la produzione alle nuove condizioni.”
Joe Casini: “è un argomento questo che è veramente stimolante, ad esempio dicevi come alcune cose sono oggettive o quantomeno sono molto intuitive, ad esempio che siamo immersi in culture che si evolvono nel tempo è un qualcosa che è terribilmente intuitivo, e sul cibo questo si vede molto bene, e al tempo stesso però su tantissime cose puntiamo i piedi. La domanda è: secondo te perchè, posto che appunto le culture si evolvono con tutti i benefici che dicevi tu, per alcuni versi è innegabile che mangiamo cose molto più sicure trattate meglio rispetto a pochi decenni fa, perché abbiamo il bisogno di raccontarci che invece qualcosa è immutato da centinaia d’anni?”
Alberto Grandi: “Ma in generale credo che la spiegazione più semplice sia il fatto che la storia rassicura, cioè dire che quella cosa lì si fa da 1000 anni, si fa da da 200 anni, è rassicurante ma lo vediamo non solo per quanto riguarda il cibo ma lo vediamo un po’ in tutti i settori, non so se questa questa constatazione la fai anche tu, le nostre città sono piene di negozi o di artigiani che ci dicono dal 1975 o dal 1900 ma a me che me frega, fallo bene, da quanto tempo lo fai non dovrebbe essere una variabile però evidentemente è un elemento che rassicura il consumatore e quindi questo vale. Dopodiché sul cibo secondo me c’è un carico da 11 rispetto a questo tema generale perché il cibo è qualcosa che mettiamo dentro il nostro corpo, è qualcosa che richiama le nostre radici, che richiama la nostra storia, la nostra identità, e quindi andare a inventarsi o a manipolare una storia precedente è un modo per in qualche modo rafforzare questo messaggio che comunque insito nella storia. L’esempio che faccio sempre è: io un anno fa più o meno ho cambiato l’automobile e nessun venditore di automobile mi ha detto ‘guarda questa è la macchina che guidava tuo nonno’, nessuno me l’ha detto e anzi tutti mi hanno detto ‘è l’ultimissimo modello quello che consuma di meno, quello con i sistemi di sicurezza più aggiornati, il computer più clamoroso’ però invece quando vai sul cibo ‘questa è la roba di Boccaccio, questa è la roba del Medioevo, Caterina de Medici, Carlo Magno’ e tutti questi personaggi qua evidente qui c’è un qualcosa in più rispetto appunto a qualunque altro prodotto. Fra l’altro in questo atteggiamento c’è anche un altro elemento di debolezza dal punto di vista teorico del pensiero cioè il fatto che noi pensiamo che il cibo sia un prodotto storico ma in realtà il cibo è è un prodotto tecnologico cioè c’è molta tecnologia sia nella produzione delle materie prime sia nella trasformazione delle materie prime, probabilmente non ci sarà tutta la tecnologia che c’è dentro un’automobile o un personal computer, ma comunque stiamo parlando di una cosa estremamente tecnologica dove la ricerca funziona tantissimo e dove l’innovazione è un elemento fondamentale dopo noi possiamo appunto raccontarci Isabella D’este, Pico della Mirandola e tutte queste cose qua, però d’altro canto un’altra cosa che dico sempre è siccome l’Italia è un grande paese esportatore anche di prodotti manifatturieri nessuna industria italiana che produce macchine, utensili o chissà che cosa dice ‘Ah ma no questa è la macchina che faceva Leonardo da Vinci’ eppure Leonardo da Vinci era italiano però nessuno richiama questo elemento forte perché evidentemente in settori diversi dal food l’elemento storico è meno rilevante però non è irrilevante. Ribadisco la storia è sempre rassicurante in qualunque settore, in qualunque comparto merceologico.”
Joe Casini: “No ma infatti siamo immersi in dei contesti che cambiano, prima quando facevi l’esempio del negozio che è aperto da 50 anni e che magari mi vende la stessa scarpa o la stessa camicia che vendeva 50 anni fa probabilmente oggi non ne venderebbe perché le mode si evolvono quindi è più interessante che tu mi fai capire che sei aperto da tanto perché magari sai intercettare i cambiamenti quindi il fatto che un negozio vende abbigliamento da 100 anni ed è ancora lì ma perché mi vende cose diverse vuol dire che evidentemente ha saputo evolversi. La domanda che ti volevo fare è rispetto al cibo: quali sono state quelle innovazioni che se non avessimo avuto oggi sarebbe inconcepibile?”
Alberto Grandi: “Innanzitutto penso alla produzione lattiero-casearia cioè questa è tutta una produzione che negli ultimi 50 anni ha conosciuto un’evoluzione finalizzata alla sicurezza alimentare, fra l’altro non so se hai seguito qualche tempo fa c’è stato anche uno scandalo abbastanza importante che però è stato in qualche modo sopito per quanto riguarda il latte crudo, e quindi tutti i processi di pastorizzazione, di lavorazione del latte precedente poi al processo di produzione del formaggio sono tutte tecniche che si sono progressivamente raffinate e che hanno migliorato la sicurezza. Dopodiché uno può dire sì però abbiamo tolto dei sapori, questo ce lo dicono i grandi cultori, ho capito è irrilevante questa cosa, la sicurezza è più importante di qualunque altra cosa e secondo me non ci abbiamo neanche perso dal punto di vista del gusto però comunque questo diciamo fa parte della sfera individuale personale e quindi questo è sicuramente un elemento, poi nel caso specifico l’abbiamo già detto: il Parmigiano Reggiano è cambiato in maniera clamorosa ma basta andare a vedere le foto perché le abbiamo tutte le foto del del Parmigiano Reggiano negli anni 50, 60 e 70 era un formaggio completamente diverso da quello che mangiamo oggi ma proprio anche nell’aspetto esteriore era completamente diverso e però appunto questo è andato sempre nella direzione di farne un ingrediente importante, di migliorarne la conservabilità, di migliorarne la sicurezza e migliorarne anche il sapore, la sapidità in qualche modo, quindi è stato un’evoluzione tecnologica che ha avuto degli effetti importanti non solo per la sicurezza ma anche per il sapore. Lo stesso vale per tutti gli insaccati fondamentalmente abbiamo migliorato anche qui le tecniche di sicurezza poi mi verrebbe da dire un settore clamoroso per certi versi è il vino. Sul vino mi piacerebbe aprire una breve parentesi io sono uno di quelli che apre le parentesi poi arrivo alle graffe, mi dimentico di chiuderle, però sul vino mi mi preme ricordare una cosa: lo scandalo del metanolo è del 1986, significa 38 anni fa, 38 anni fa non è come il formaggio o come il salame ma vuol dire 38 vendemmie fa vuol dire che tu hai fatto il vino per 38 volte da allora e da quel momento, perché è stato il punto più basso per il vino italiano, sia dal punto di vista qualitativo ma soprattutto dal punto di vista della reputazione, in 38 vendemmie e in 38 processi di vinificazione hai dovuto ricostruire l’immagine, la qualità innalzandola tantissimo, facendo grandi investimenti tecnologici per la sicurezza perché questo era quello che in qualche modo veniva imputato al vino italiano. L’Italia ha fatto, da questo punto di vista, un balzo in avanti enorme però ancora una volta raccontarci che il vino dei nostri nonni era migliore di quello che beviamo noi oggi è assolutamente falso ed è quasi offensivo cioè su questo io sono molto molto tranciante è davvero offensivo, però anche qui grande investimento tecnologico sulla sicurezza, sui miglioramenti di vinificazione, su il controllo di tutto il processo sull’igiene negli ambienti dove questo avviene, questo vale per tutti i prodotti ovviamente e questi sono tutti elementi che hanno fortemente cambiato il nostro modello alimentare. Poi per quanto riguarda invece la cucina nello specifico una delle mie crociate che ovviamente faccio scherzosamente è che adesso è sparito lo scolapasta, non so se anche tu hai notato questo dettaglio, ormai la pasta viene sempre risottata quindi la si tira fuori dall’acqua prima di aver completato la cottura e poi si salta in padella con il sugo perché questo effettivamente rende più saporito e permette un miglior gusto, rispetto ai gusti di noi oggi, ma io anche lì mi ricordo quando io ero ragazzo, ma forse anche di più, andavi nei ristoranti ti davano il piatto con la pasta in bianco con sopra il condimento che tu dovevi mescolarti direttamente nel piatto e questo fra l’altro era rassicurante per il consumatore, questo è interessante: perché facevano così? Perché così tu consumatore cliente eri sicuro che non ti stavano rifilando il piatto di qualcun altro o i resti di qualcun altro, quindi tu avevi la pasta in bianco e il tuo condimento era una forma di assicurazione invece adesso tutto questo rischio evidentemente non c’è più e quindi c’è la pasta risottata tutte queste cose qui saltate in padella ed è un elemento che ha cambiato moltissimo il nostro approccio con la pasta. Quindi ancora una volta il prodotto che vorremmo essere più tradizionale e più radicato nella nostra cucina in realtà negli ultimi 10 anni ma poi soprattutto dopo il covid l’esplosione della pasta risottata è secondo me un effetto post covid eppure appunto adesso è sparito lo scolapasta Io sto facendo sto combattendo, se vuoi combattere al mio fianco questa crociata, per salvare lo scolapasta perché sta sparendo dalle nostre cucine.”
Joe Casini: “Prima parlavi del vino e mi è venuta in mente una cosa. Una delle delle domande che qui facciamo spesso la chiamiamo ‘la domanda del filo del rasoio’ ovvero ci sono dei fenomeni quando ti muovi proprio sul limite dove se metti il piede da una parte o dall’altra il fenomeno cambia parecchio. Prima per esempio parlando di vino mi veniva in mente la differenza tra i grandi produttori e i piccoli produttori. Grandi produttori hanno ad esempio anche delle logiche economiche, ragionando in termini proprio di investimenti non possono assolutamente perdersi neanche un raccolto insomma c’è un approccio totalmente diverso, per contro magari sono più controllati rispetto al piccolo che invece diciamo così come forse può avere una maggior cura per contro ha anche meno controlli. Quindi la domanda che ti volevo fare è: posto che c’è un trade off qui, quando ti muovi sulla grande realtà, il grande produttore, hai dei pro e dei contro, quando ti muovi invece sul piccolo hai dei pro e dei contro diversi, dov’è un po’ la linea di demarcazione? Ora sono un po’ di anni dove stiamo aumentando la nostra cultura gastronomica, c’è una maggiore attenzione, quando dicevi come celebravamo una volta le cose, mi viene in mente la cucina dei miei nonni che era mitologica quando ero bambino e se ci ripenso ora dico…”
Alberto Grandi: “Nel libro c’è un capitolo che si intitola ‘Le vostre nonne cucinavano male’.”
Joe Casini: “Esatto, cioè ora se ci ripenso avevo una nonna che metteva tre dita d’olio su tutti i piatti e l’altra che si arrabattava gli scarti che riusciva a trovare al supermercato per mettere comunque a tavola qualcosa. Quindi oggi c’è una ricerca dell’alimento, c’è una cultura più importante quindi si vanno anche a cercare piccole produzioni, prodotti più particolari per contro il grande produttore ha altre logiche ma anche altri controlli. Ecco la domanda che ti volevo fare è: dov’è secondo te questa linea di demarcazione dove si vede e quali sono i pro e i contro da una parte e dall’altra?”
Alberto Grandi: “Questa è davvero una domanda difficile alla quale credo, almeno per quanto riguarda le mie competenze, non sia possibile dare una risposta definitiva, credo che la soluzione vera a questo trade off che tenga insieme il piccolo e il grande sia esattamente quel sistema contro il quale io mi sono spesso scagliato cioè le denominazioni, cioè il creare aree omogenee e i prodotti che siano in qualche modo disciplinati da appunto da disciplinari che ne regolano i sistemi di produzione l’approvvigionamento delle materie prime, l’invecchiamento per quanto riguarda il vino, insomma ci sono tutti questi elementi che entrano nel disciplinare non solo del vino ma anche dei formaggi, dei salumi e tutto il resto, ecco questa cosa è forse l’elemento che permette di tenere insieme i due elementi, dopodiché secondo me c’è un problema di fondo cioè che le denominazioni spesso non funzionano e le denominazioni sono molto costose da mantenere e quindi serve una massa critica serve un mercato per quel prodotto specifico che giustifichi questo investimento e molto spesso invece diventa un appesantimento dal quale poi gli stessi produttori scappano perché questo poi è anche l’altro elemento importante però usate in maniera intelligente e usate soprattutto quando servono e quando hanno uno scopo economico e anche qualitativo importante le denominazioni sono uno strumento di conservazione della qualità, di conservazione della ricerca, quindi dell’innovazione e anche di salvaguardia di un territorio quando questo è necessario. Molto spesso noi in Italia ci siamo fatti secondo me prendere la mano con l’idea di piantare bandierine qua e là, con l’idea di costruire fattori attrattivi dal punto di vista turistico, ci siamo inventati prodotti e disciplinari che non hanno nessuna ragione d’essere, cioè quello che è successo in Italia negli ultimi anni è che non è il territorio che fa il prodotto ma è il prodotto che fa il territorio o meglio il prodotto che crede di poter fare il territorio, cioè gli amministratori locali credono di poter promuovere il territorio, fare marketing territoriale, attraverso un prodotto specifico. Molto spesso queste queste politiche non funzionano, creano distorsioni, però in linea generale credo che l’unica maniera per tenere insieme grandi e piccoli sia appunto le denominazioni, siano questi strumenti qua di salvaguardia della qualità. Mi viene in mente l’esempio forse più clamoroso, perché non è una denominazione ma è più di una denominazione, il caso dell’aceto Balsamico di Modena dove c’è l’aceto balsamico IGP che è un prodotto industriale e dove ci sono grandi produttori di aceto e a livello nazionale le marche sono famosissime non le cito qui ma è un prodotto industriale cioè aceto col caramello e con un po’ di mosto questo sostanzialmente è l’aceto balsamico di Modena IGP, con quindi volumi industriali enormi di produzione, a fianco di questo ci sono due DOP l’aceto balsamico tradizionale di Modena e l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia che hanno volumi ridottissimi di produzione, che hanno disciplinari strettissimi e molto cogenti insomma che non basta produrlo bisogna poi superare anche una serie di test successivi al processo di produzione per poter vantare questo bollino. Ecco, io credo che da un lato il prodotto industriale abbia la forza commerciale e di marketing per trainare il prodotto, dall’altro lato il prodotto DOP quello artigianale vero abbia l’elemento mitologico e anche qualitativo che permetta di avere un fattore attrattivo importante per il prodotto anche industriale, cioè quindi secondo me bisognerebbe riuscire a creare questo mix, non è facile perché in realtà appunto l’unico esempio che mi viene in mente in Italia è esattamente quello dell’aceto Balsamico di modena, non me ne vengono in mente altri però forse questa cosa per cui si differenziano anche le denominazioni. In Francia sui vini riescono a fare questa cosa, noi non ci riusciamo anche se abbiamo le Doc e le DOCG ma in realtà non funziona questo sistema per cui uno trascina l’altro, però invece in Francia il sistema che ha quattro livelli diversi per me è più efficace da questo punto di vista. Ecco mi verrebbe in mente l’aceto Balsamico di Modena come esempio virtuoso, in realtà poi i tre consorzi fanno finta di litigare perché poi c’è anche questa cosa molto italiana però in realtà i due elementi si integrano e uno trascina l’altro, uno con la forza economica e l’altra con la forza del mito fondamentalmente.”
Joe Casini: “Guarda infatti è terribilmente interessante che poi si sovrappongono tantissime prospettive ad esempio prima dicevamo tra grande produttore e piccolo produttore, un’altra questione è anche tra le realtà locali e la necessità di organizzare a un livello più alto per un discorso anche di tutela dei consumatori quindi parlando anche di certificazioni visto che poi tu insegni anche integrazione Europea, anche qui spesso e volentieri c’è un tema tra quello che è come spontaneamente a livello territoriale negli scorsi decenni si sono organizzate realtà produttive e quelle che invece sono le istanze, le necessità, le sensibilità che oggi abbiamo a maggior ragione perché su alcune cose abbiamo un’integrazione appunto di un ordine non soltanto nazionale addirittura sovranazionale. Ecco questo è un altro tema che spesso viene tirato in ballo dalla politica, ma insomma dove spesso si va a rendere plastico un tema molto più ampio che è quello del rapporto che abbiamo in questo processo di integrazione che stiamo facendo a livello europeo. Come la vedi tu qui la situazione?”
Alberto Grandi: “Questa è una domanda molto politica in realtà ed è forse un po’ anche al centro, non tanto della mia riflessione passata ma un po’ delle delle cose sulle quali sto ragionando ultimamente, perché il tema di fondo è come al solito la strumentalizzazione politica che viene fatta di questo tema e del rapporto con l’Europa. Siamo reduci da una recente campagna elettorale per le elezioni europee dove abbiamo visto cose incredibili cioè manifesti pubblicitari dove l’Europa ci costringeva a mangiare i grilli o la carne coltivata, queste cose qua io vorrei spiegare agli italiani che all’Europa ma in generale al mondo di quello che mangiano gli italiani non gliene frega niente, a nessuno frega niente di quello che mangia gli italiani, e quindi non c’è un assedio per cui vogliono farci mangiare qualcos’altro, gli italiani possono mangiare quello che vogliono e nessuno dirà mai niente di questa cosa qua quindi è davvero una costruzione. In realtà paradossalmente l’Europa invece è molto più interessata, per una serie di motivi ancora una volta politici, a salvaguardare alcune nicchie di produzione, a permettere a certe comunità di sopravvivere con la loro produzione, ovviamente come al solito a condizione che questa cosa stia in piedi e quindi c’è quest’idea davvero molto vittimistica però è strumentale dal punto di vista politico cioè quella di dirsi ‘l’Europa e il mondo vuole farci mangiare la farina di grilli, vuole farci mangiare la carne coltivata e chissà cos’altro’, non è assolutamente vero e invece appunto dovremmo utilizzare le istituzioni europee per quello che sono, cioè per la capacità che hanno di difendere certe produzioni attraverso strumenti che non sempre sono efficaci, l’ho già detto prima, le denominazioni non sempre sono efficaci ma se utilizzate quando necessario possono essere efficaci sia nella salvaguardia di un prodotto ma anche nella difesa degli interessi dei produttori, cioè l’idea di fondo dell’Europa è quella che non puoi francese o tedesco produrre il Parmigiano Reggiano, il Parmigiano Reggiano lo si produce in un’area che viene stabilita appunto attraverso un disciplinare e quindi c’è in qualche modo il tentativo da parte dell’Europa di sottrarre alla concorrenza alcune produzioni che non hanno un marchio commerciale ma hanno un marchio collettivo, questo è anche identitario per quanto riguarda un territorio. Quindi questo è secondo me l’elemento fondamentale di tutta questa di tutta questa vicenda, dopodiché molto spesso la politica preferisce invece scaricare sull’Europa le proprie debolezze e strumentalizzare questa questa cosa e io è 20 anni che sento, ma forse anche di più, che sento governi italiani che ogni volta che devono fare qualcosa dicono ‘ce lo chiede l’Europa’, ma l’Europa siamo noi cioè il nostro governo è lì quindi chi è che ve lo chiede? Siete voi che ve lo state chiedendo. Un’altra delle mie crociate è contro il il checkin per i biglietti dei treni regionali, io continuo a non capire perché si faccia questa cosa posto che il primo giorno che è entrata in vigore questa cosa Io ho preso un treno e non avevo il check in, però diciamo il controllore è stato magnanimo perché era il primo giorno però gli ho chiesto ‘ma scusa che senso ha sta cosa qua?’ e lui mi ha risposto ‘siamo l’unico paese in Europa che non aveva questa cosa’ a parte il fatto che non sono sicuro ma, al di là di questo, gli ho risposto ‘siamo anche l’unico paese in Europa che ha il bidet’ non è che l’Europa ci dice di togliere i bidet perché abbiamo questa cosa, cioè di cosa stiamo parlando è veramente incredibile questa questo uso strumentale frutto probabilmente di una politica debole dell’Europa. L’Europa siamo noi, le istituzioni europee sono fatte dai nostri governi, dai nostri rappresentanti quindi dare la colpa all’Europa di ciò che siamo è abbastanza pretestuoso.”
Joe Casini: “Guarda allora stiamo andando verso la parte conclusiva ma ho ancora un paio di domande: prima mentre facevi gli esempi e dicevi la farina di grilli ho pensato che si parla spesso che l’Europa vuole che mangi grilli poi in realtà farine che provengono per esempio da insetti vengono già utilizzate spesso nelle industrie alimentari semplicemente non lo sappiamo, quindi c’è anche sicuramente un tema culturale dietro con la percezione che abbiamo di alcuni argomenti e un tema culturale chiaramente ci si porta dietro anche temi economici, l’accesso alla cultura dipende anche da situazioni sociali, economiche e così via. Una cosa che mi ha colpito molto in questi anni seguendoti è che spesso e volentieri i dibattiti in cui ti trovi coinvolto, che siano sui social ma anche in trasmissioni e così via, contrappongono non tanto due fatti o comunque due evidenze diverse, due idee diverse, ma proprio due approcci totalmente diversi: uno è appunto totalmente narrativo cioè sul cibo abbiamo queste storie che ci raccontiamo che sono per noi importanti evidentemente, ma che sono storie, sono fantasie che abbiamo sulle origini dei nostri prodotti e così via, dall’altra parte invece c’è un lavoro scientifico prima all’inizio puntata già dicevi la ricerca sulle fonti, quindi è proprio un approccio totalmente diverso. La domanda che ti volevo fare è trovandoti immagino quindi spesso in situazioni dove tu hai un approccio e dall’altra parte c’è una predisposizione totalmente diversa che fa leva su altri argomenti e posto che c’è evidentemente su questi temi anche una questione culturale come si fa in questo, non dico a non essere paternalistico cioè nel dire ‘guarda io ho studiato e te no quindi di che stiamo parlando?’ ma proprio a creare un ponte, cioè a dire posto che questa attività di ricerca è un discorso che ci aiuta a essere più consapevoli, nonostante io questo dibattito magari lo faccio sui social, dove c’è sempre una polarizzazione, come si riesce invece a sottrarsi, se ci riesci, a questo gioco?”
Alberto Grandi: “Guarda la premessa che ti faccio della cosa che dico sempre e il mio socio del podcast Daniele Soffiati non vuole mai che lo dica, ma in realtà io ne sono convinto, penso di essere il peggior comunicatore del mondo quindi non sono la persona giusta alla quale fare questa domanda, però nonostante questo, nonostante i miei limiti e anche i miei limiti caratteriali perché io sono uno un po’ fumantino a me piace litigare quindi insomma ho questa questo approccio qua però, nonostante tutto questo, io credo che in questo caso la goccia scavi la pietra cioè continuare a raccontarlo e io lo constato giorno per giorno cioè le reazioni veementi che ci sono state poco più di un anno fa marzo 2023 quando ho rilasciato l’intervista al Financial Times dove io venivo sommerso da offese, minacce ogni giorno sulla mia mail c’era di tutto e anche sui social ovviamente, ecco da allora a oggi molte cose sono cambiate, è vero ogni volta ogni tanto saltano fuori quando vengono pubblicati dei reel o dei pezzi c’è sempre qualcuno che si arrabbia o si offende però mi sembra che anche qui si stia creando un un filone di maggiore consapevolezza e nel momento in cui, io premetto sempre di che non metto mai in discussione la qualità della cucina italiana e dei prodotti italiani, primo perché non ho le competenze e secondo perché a me piacciono i prodotti italiani, basta vedermi sono leggermente sovrappeso quindi a me piace la cucina italiana, quindi nel momento in cui non metto mai in discussione la qualità e invece racconto una storia dico ‘Guardate siamo arrivati qui in questo modo non nell’altro modo nel quale voi ve lo raccontate, nel quale noi siamo soliti raccontarcelo’ e quindi in questo modo le cose forse cambiano. L’approccio è quello di essere accoglienti, non so come altro come altro definire il dibattito, cioè se io appunto, come dici tu, mi mettessi sul piedistallo e dicessi ‘io ho studiato voi no, state zitti’ probabilmente sarebbe meno efficace, invece entrare nell’agone ragionare dire ‘ma ti ricordi tua nonna…’, ecco tua nonna oltre quei due piatti non sapeva fare, quindi già questa cosa in qualche modo smuove. Ad esempio un dibattito che ho fatto poco tempo fa con un mio collega e amico Michele Fino che ha scritto una cosa molto interessante sulla dieta mediterranea, che è un’invenzione americana, però ad esempio lui ha aperto una strada ad un dibattito che invece secondo me potrebbe essere molto proficuo che è quello di dire ‘ma allora forse la dieta mediterranea come ce la siamo raccontata non è mai esistita e gli italiani non l’hanno mai praticata’, diversa la questione della frugalità cioè gli italiani perché affamati hanno sempre mangiato certe cose ma non perché fossero considerate più sane e più buone, ma perché non c’era altro e allora questa diventa una cosa un po’ diversa, dopodiché la fame è brutta indipendentemente da cosa stai mangiando ma se non assumi abbastanza calorie hai fame e quindi poi stai male o comunque diciamo tendi a deperire, però questo è un dibattito interessante cioè passare da una narrazione meravigliosa per cui gli italiani hanno sempre mangiato cose fantastiche anche quando morivano di fame invece raccontare che le cose sono un po’ divers, gli italiani hanno passato parecchi periodi di fame molto pesante e allora a questo punto forse si apre un dibattito che è un po’ più interessante rispetto appunto alla contrapposizione: dieta mediterranea si, dieta mediterranea no. Gli italiani non l’hanno mai fatta la dieta mediterranea, quindi se devo rispondere io da Alberto Grandi andrei col bulldozer, forse cercare un punto di contatto è invece un elemento che arricchisce il dibattito e forse permette di ampliare la consapevolezza rispetto a questi temi,altre strade sinceramente non le vedo, ribadisco io non sono un esperto di comunicazione. ”
Joe Casini: “Però credo veramente che insomma stai su un argomento che attiva veramente tantissime cose. All’inizio della puntata dicevamo come la regola è rassicurante, la tradizione è rassicurante, c’è il desiderio a focalizzarci su alcune cose ma anche come poi noi semplifichiamo il mondo per nostra scelta quindi la ricetta tipo della carbonara dire com’è nata è una semplificazione poi in realtà ognuno di noi la fa più o meno a modo suo, la cosa importante è se ti piace o non ti piace, e una delle cose che stavo riflettendo è proprio che per quanto da una parte semplificare ci aiuta magari a padroneggiare, a comprendere se io ho la ricetta posso rifare un piatto che altrimenti magari senza ricetta non saprei da dove partire e così via, per contro ci fa anche perdere molto cioè se uno è libero di esplorare, se ognuno accetta il fatto che ok tu come la fai la carbonara? Magari scopro che la carbonara come la fai tu mi piace di più posto che nessuno delle due magari segue la ricetta o così via. Per fare questo però serve di base una sicurezza e quindi l’ultima domanda che ti volevo fare è a proposito del libro. Tu hai scritto un altro libro molto interessante che si chiama ‘storia delle nostre paure alimentari’ e a me il tema della paura è un tema che mi appassiona moltissimo perché dalle paure noi possiamo imparare tantissimo e spesso proprio perché cerchiamo di negare e di non vedere ciò che ci fa paura quella poi diventa l’insidia perché il non andare vedere non è che toglie il problema semplicemente ce lo fa poi magari riproporre più avanti in un momento in cui non siamo assolutamente in grado di gestirlo, quindi la domanda che ti volevo fare è: come la paura in qualche modo ha condizionato l’evoluzione del modo in cui abbiamo la nostra cultura gastronomica ma anche nel modo in cui ne parliamo oggi, cioè quanto impatta la paura su questo tema?”
Alberto Grandi: “Impatta tantissimo, ti ringrazio di aver citato quel libro al quale sono particolarmente affezionato e vabbè io in realtà sono affezionato ai libri che hanno venduto poco, però detto questo la paura impatta in due modi fondamentalmente: in un modo negativo e in un modo positivo. Il modo negativo è quello che tendenzialmente le cose nuove fanno paura, questo non solo per il cibo ma in tutte, in particolare per il cibo, nel libro parlo della patata e del pomodoro ci hanno messo due secoli perché facevano paura perché erano cose nuove, cose che la gente non non sapeva non sapeva né coltivare né trattare dal punto di vista alimentare quindi c’era molta diffidenza, le cose nuove tendenzialmente fanno paura. Poi altre cose fanno meno paura ad esempio penso al tacchino che semplicemente è una gallina molto grande è stato in qualche modo recepito più velocemente perché era assimilabile a cose che già conoscevi, il pomodoro non era assimilabile a niente e lo stesso la patata fondamentalmente, il mais anche questo già impiegato per altri motivi perché comunque poteva essere assimilato ad altri cereali, al di là di questo quindi la paura del nuovo, la neofobia è un qualcosa che fa parte del nostro modo di pensare lo vediamo anche in questi anni, tutti i cibi nuovi quando arrivano fanno paura dal sushi al poke, la farina di insetti fa tutto paura perché bisogna in qualche modo assimilarlo. Io cito sempre mio padre io 1975 quando ho aperto la prima pizzeria a Mantova, una città piccola e provinciale tutto quello che volete, ma mio padre era esattamente come il sushi oggi ma molto di più oggi ormai sdoganato come il sushi 10 anni fa era una cosa esotica una cosa strana. Paradossalmente questa cosa qui delle paure, non tanto per i prodotti diciamo grezzi per le materie prime appunto come pomodoro e patata, ma per i prodotti trasformati è stato un elemento fondamentale nel libro sulle paure alimentari racconto come nelle trattorie soprattutto nelle Taverne urbane già nel Medioevo, ma per tutta l’età moderna e anche alle soglie della contemporaneità, la ricetta con la quale si facevano alcuni prodotti penso in particolare gli stufati, insomma i prodotti quelli di frequente consumo in questi tipi di locali erano fondamentali perché era lo strumento con il quale si rassicurava il consumatore, cioè tu avevi la ricetta sapevi che quella cosa lì era fatta in quel modo lì e se non rispettava la ricetta potevi anche rischiare tu gestore di una Taverna rischiavi anche la galera oppure molto spesso era la calunnia che portava alla galera da questo punto di vista. Quindi insomma le paure alimentari in qualche modo hanno anche in qualche modo standardizzato la cucina poi in realtà le cose sono poi evolute non è stato solo questo però in ogni caso la paura ha anche portato queste forme di rassicurazione e d’altro canto lo vediamo anche questo all’opera nei nostri giorni le paure alimentari, i timori giustificati o meno, hanno portato una grande evoluzione dal punto di vista delle regole sanitarie, della gestione dell’igiene, della gestione delle materie prime, della filiera del freddo, insomma ci sono tutti elementi che hanno a che fare con le paure alimentari, ribadisco spesso giustificate e altrettanto spesso ingiustificate, che però hanno portato a una maggiore sicurezza alimentare esattamente come le ricette del Medioevo degli stufati nelle Taverne delle città italiane e francesi.”
Joe Casini: “ Quindi diciamo il punto è non negare la paura ma esserne consapevoli per utilizzarla per poi andare avanti e far progredire. Ti ringrazio perché proprio credo veramente uno dei temi più attuali in questo momento e probabilmente il cibo ha la capacità di dargli quella forza a questi messaggi poi per farceli vedere veramente in maniera plastica. A questo punto Alberto siamo nel momento conclusivo per eccellenza del podcast che da 3 anni ormai si conclude con quella che noi chiamiamo la domanda tra gli ospiti. Allora la prima ospite che ti propongo è Carola Frediani, giornalista ha una newsletter bellissima in cui si occupa di Cyber War quindi tutto ciò che riguarda l’utilizzo dell’informatica all’interno no della Geopolitica e delle guerre tra stati e quindi come in qualche modo la tecnologia abbia questo risvolto da un punto di vista geopolitico. Ti propongo poi Jessica Cani, blogger sarda e abbiamo parlato di eno-gastronomia e territori, quindi il rapporto anche da un punto di vista turistico in cui possono essere utilizzate queste leve per far conoscere i territori ma anche per scoprire i territori in cui noi stessi siamo cresciuti. Il terzo ospite invece che ti propongo è Carolina Boldoni, antropologia e con lei abbiamo parlato delle nostre paure che ci trasciniamo dietro da millenni, di come alcuni argomenti ad esempio siano ancora dei tabù abbiamo in particolare per esempio della morte, del rapporto che abbiamo col tema della morte, di come anche quello è un argomento che facciamo fatica a normalizzare pur essendo l’unica cosa che forse unisce tutte le persone su questo pianeta. Alberto di questi tre ospiti quale ti incuriosisce di più?”
Alberto Grandi: “Allora guarda dato che abbiamo finito sul libro sulle paure alimentari che è figlio prediletto ma che tra le critiche che ha ricevuto è quella di aver fatto un po’ di invasione di campo io sono uno storico ma in quel libro lì ogni tanto scivolo sull’antropologia e allora vado sulla domanda di Carolina.”
Joe Casini: “Carolina ha lasciato una domanda bellissima devo dire: quali sono i tuoi maestri e perché proprio loro? Cosa ti hanno lasciato? Maestri che hai avuto o maestri che hai avuto in maniera virtuale.”
Alberto Grandi: “Il mio maestro effettivo accademico è Alberto Guenzi che è adesso in pensione, professore di storia economica prima a Bologna poi a Salerno e poi a Parma e quindi diciamo è colui che mi ha in qualche modo fatto venire la curiosità per un tema generico che è la città perché poi alla fine io se penso a tutto quello che ho studiato c’è sempre la città in mezzo e questo questo sistema complesso in qualche modo è stato il vero filo conduttore di tutte le mie ricerche, anche queste recenti legate appunto al cibo. Se devo invece andare su altri aspetti devo dire che io ho un grande maestro che è uno scrittore che mi ha molto condizionato e che ancora adesso mi condiziona, tant’è vero che nell’ultimo libro su ‘la cucina italiana non esiste’ c’è un piccolo passaggio dove cito questo autore che è Joseph Roth cioè il cantore del declino dell’impero austro-ungarico e mi preme sempre ricordare che se nascesse oggi Joseph Roth sarebbe ucraino perché lui è nato a Leopoli ma all’epoca era Impero austro-ungarico e lui ha passato tutta la sua vita a chiedersi cos’è una patria e se esiste il concetto di patria e credo che questo tema anche nell’Europa del 2024, non solo quella tra le due guerre mondiali, il tema della patria e del concetto di identità, qual è il mio ruolo, il mio luogo nel mondo, qual è la mia terra, ecco tutti questi temi sono temi che hanno molto a che fare con la nostra difficoltà di oggi e che stanno dietro un po’ al mio ragionamento sulla cucina, sull’identità, sulla cultura, su cosa vuol dire essere italiani nel 2024, insomma tutto quello che ne consegue. Dopo ce n’è un altro che però non c’entra niente che è De Gregori ma perchè mi serve perché usando molto la sinestesia come figura retorica io ogni tanto scivolo in questo modo qua di esprimermi.”
Joe Casini: “A questo punto Alberto è il tuo turno se vuoi lasciare una domanda per gli ospiti delle prossime puntate.”
Alberto Grandi: “Allora mi piacerebbe molto. Potremmo appunto chiederci, una domanda diciamo generica legata sempre al libro che abbiamo citato, se le paure alimentari sono più frutto di un elemento, una reazione istintiva legata appunto al fatto che è un cibo nuovo, un cibo sconosciuto, qualcosa di non maneggevole nell’immediato oppure se le paure alimentari sono spesso qualcosa che hanno molto più a che fare con scelte politiche, con scelte economiche, con opportunismo politico che in qualche modo cavalca magari qualche sentimento profondo nel nostro modo di vivere ma che in realtà viene alimentato e rafforzato dall’esigenza di costruire un consenso rispetto a un processo politico che invece molto spesso non ha consenso non ha base culturale.”
Joe Casini: “A questo punto ti ringrazio per essere stato con noi in questa domenica.”
Alberto Grandi: “Grazie a voi è stato un grande piacere.”
Joe Casini: “E grazie ovviamente a voi che ci avete ascoltato anche questa domenica, ci vediamo come sempre tra due settimane con una nuova puntata di mondo complesso, a presto.”