Con Alberto Puliafito, giornalista e fondatore di Slow News, facciamo una passeggiata dentro la filosofia “slow”, per pensare una vita più lenta e un’informazione più approfondita.
Joe Casini: “Buongiorno e benvenuti alla nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast che ormai ci accompagna da diversi mesi! Ogni due settimane di domenica siamo qui a fare una chiacchierata con un ospite per parlare di complessità e di come nel mondo complesso in qualche modo i saperi sono sempre più intrecciati. Oggi facciamo questa chiacchierata con Alberto Puliafito – benvenuto Alberto! Alberto è giornalista, regista, formatore, co-fondatore e direttore di Slow News e ha da poco concluso un’esperienza interessantissima di cui sicuramente parleremo, come teaching fellow per conto di Google, quindi oggi parleremo – come avrete intuito – di giornalismo ma con tutta una serie di punteggiature molto particolari che Alberto ci porterà, quindi Alberto benvenuto ancora una volta e se sei pronto io inizierei.”
Alberto Puliafito: “Assolutamente sì, grazie per l’invito e partiamo pure.”
Joe Casini: “Un tema che ti è molto caro è il tema dello slow journalism, prima di entrare nella tematica noi iniziamo di solito le puntate del podcast con quella che chiamiamo «domanda semplice», ovvero quella domanda che da la possibile all’ospite di tracciare la linea dell’argomento che poi seguiremo nel corso della chiacchierata. La domanda semplice che ti faccio è: cosa significa vivere, lavorare, in termine slow? Che significato ha per te?”
Alberto Puliafito: “Allora ammetto che in particolare, applicato al giornalismo, è chiaramente da un lato sia, se vuoi, uno stile di vita sia, in qualche modo, un richiamo ad un brand che conosciamo tutti che è Slow Food che è un po’ il papà di tutti i marchi che poi hanno a che fare con la lentezza… quindi diciamo è anche un modo di riconoscersi sotto ad un determinato cappello. Che cosa vuol dire? Vuol dire fare le cose con il tempo che ci vuole, senza essere ossessionati dal fatto che ci debba essere per forza una quantità massiva di produzione, una velocità, una risposta immediata a tutti gli stimoli. Ogni tanto, pensando ai paragoni con gli sport, per esempio uno sport slow è per definizione il tennis. Il tennis non ha un fine partita determinato dal tempo, per vincere o perdere una partita a tennis ci metti il tempo che ci vuole, e questo è un approccio secondo me molto importante perché si è un po’ perso il senso di questo tipo di approccio al lavoro. Pensiamo a come il digitale ha cambiato radicalmente tutta una serie di lavori, soprattutto quelli legati al mondo della cultura dove fondamentalmente è la risposta a questa voragine di spazi che si possono colonizzare con ogni tipo di contenuto. Produciamo tantissimo, produciamo anche velocemente e invece lo slow richiama un concetto appunto di «cerchiamo di farle bene con il tempo che ci vuole». In più io ci aggiungo anche il concetto di sostenibilità, non soltanto quella ambientale o la sostenibilità di cui ci si riempie un po’ tutti la bocca, ma proprio di sostenibilità personale, delle proprie vite. Si fa un gran parlare, finalmente, di riequilibrare il rapporto tra vita personale e lavoro e poi io ci aggiungo, declinata rispetto al giornalismo, fare slow journalism vuole anche dire occuparci non soltanto di buttare fuori i contenuti, ma anche della relazione con le persone. È quello che cerchiamo di fare per esempio noi in Slow News, dove le persone che fanno parte di chi ci sostiene economicamente, ma anche chi non lo fa ancora, possono darci dei suggerimenti, fare delle domande, relazionarsi con la redazione. In alcuni casi addirittura possono lavorare con noi se lo desiderano, dandoci un po’ di disponibilità del loro tempo e delle loro competenze e lavorando in questa figura che ci siamo inventati che si chiama la figura del «consulettore», colui che fa una piccola consulenza per aiutarci a capire meglio degli ambiti in cui magari come giornalisti non siamo esattamente esperti. Abbiamo contenuti per chi ama il giornalismo approfondito, abbiamo contenuti per chi vuole il filtro dalle letture quotidiane, abbiamo contenuti per bambini, abbiamo un fumetto che parla direttamente a loro e poi abbiamo ovviamente il documentario che si chiama Slow News che si può vedere su Vimeo e che serve a raccontare a tutti che un altro giornalino è possibile. Produciamo anche contenuti di media literacy, di alfabetizzazione – se mi passi il termine – all’ecosistema digitale, all’ecosistema dei media per tutte quelle persone che sono curiose di saperne di più e anche per chi lavora nel mondo del giornalismo e della comunicazione da un punto di vista professionale. Quindi diciamo un’offerta molto ampia pensata per il pubblico e per costruire una relazione tra persone.”
Joe Casini: “Hai già messo sul tavolo due tre argomenti super interessanti e che ora andremo ad approfondire un po’ tutti. Tanto per cominciare mi ha colpito molto il riferimento che hai fatto a come il digitale ha impattato proprio sul nostro tempo e sulla percezione che abbiamo del tempo, questo è un argomento che nel podcast abbiamo toccato diverse volte. Sicuramente oggi si vive a un ritmo molto più veloce e questo determina tutta una serie di processi sociali e lavorativi, perché nel momento in cui si vanno ad estremizzare i tempi in cui vengono realizzati, questi cambiano in qualche modo la propria natura, quindi fare una cosa in un mese o fare una cosa in dieci minuti non ti porta allo stesso output e non ha lo stesso significato. Quindi in particolare per quanto riguarda il giornalismo la domanda che ti volevo fare è: in questi anni abbiamo avuti fenomeni legati al clickbait piuttosto che la ricerca dell’engagement a tutti i costi, la polarizzazione delle opinioni, ecco in particolare per quanto riguarda il giornalismo tu come hai vissuto e come vedi questa transizione? E come vedi in particolare oggi la situazione? Quali sono le sfide del giornalismo oggi?”
Alberto Puliafito: “Allora guarda giusto per chiarire il fatto che le riflessioni sullo slow journalism, almeno dal mio punto di vista, ma poi anche dal punto di vista di molte persone che ho conosciuto e con cui ho avuto la fortuna di poter lavorare, non sono delle riflessioni un po’ naïf di gente a cui piace stare lì ad accarezzarsi il mento, pontificare e dire «Ah! Adesso facciamo le cose slow!». È una riflessione che parte da un problema concreto, se dovessi dirti il momento esatto in cui ho realizzato che c’era qualcosa che non andava è stato mentre stavo dirigendo una grossa testata digitale Italiana. Noi eravamo immersi nel frullino, nella ruota del criceto, producevamo tra i 400 e gli 800 contenuti al giorno, non riesco nemmeno a chiamarli articoli e io da direttore non riuscivo, ovviamente, a controllarli tutti… però ero talmente dentro la routine che non me ne rendevo conto. Ad un certo punto però succede questo: ero a Sanremo a coprire il Festival con il team e ad un certo punto c’era una conferenza stampa di un cantante e si radunano intorno alla scrivania dove parlava il cantante una quarantina di colleghe e colleghi con gli smartphone che riprendevano tutte la stessa conferenza e che mandavano in streaming sulle loro pagine Facebook, sui profili Instagram – manco mi ricordo se si potevano già fare le dirette su Instagram all’epoca – tutti la stessa conferenza. Non c’era il giornalista che commentava, era il live di quella conferenza moltiplicata per 40 o 50 testate. Aggiungi a questo il fatto che il mio compito come giornalista «fast» fondamentalmente era assicurarmi che sui siti che noi gestivamo arrivassero un sacco di click… ho cominciato a mettere insieme i puntini, a chiedermi questi click quanto tempo passano sui nostri contenuti? C’è qualcuno a cui frega qualcosa di quello che scriviamo o capitano lì per caso e poi se ne vanno? Fortunatamente mi sono reso conto che questi ragionamenti non ero solo a farli, che eravamo in presenza di un grosso problema che ancora in gran parte irrisolto ed è il fatto che il giornalismo non ha trovato la quadra sul digitale. Sulla carta – ora non voglio fare quello nostalgico – sei di fronte ad uno spazio finito, riempi quello spazio, ad un certo punto il giornale deve andare in stampa, deve uscire ed è un prodotto finito. Sul digitale tu hai queste illusione di ciclo continuo, di scroll infiniti, di una roba che non finisce mai. Appunto la risposta che ha dato il giornalismo inizialmente è stata: riempiamo. Un giorno mi capitò di parlare con un collega che mi disse «io ho come compito quello di fare un post ogni quindici minuti sul Milan»… ma che cosa puoi dire una volta ogni quindici minuti sul Milan? Se poi aggiungi a questi il fatto che quest’idea della velocità ha di fatto sdoganato tutta una serie di strutture che sono fondamentalmente prendere tutti i contenuti che troviamo e buttarli fuori, online, oppure in onda in televisione, perché tanto stanno lì e non li sottoponiamo più al normale processo di verifica che dovrebbe far parte naturale del lavoro giornalistico, ecco che questo è proprio il quadro del problema. Noi viviamo in un’era in cui ci sono delle trasmissioni televisive in Italia che si permettono il lusso di mandare in onda un’immagine di un gioco da tavola mai prodotto raccontando ai telespettatori che in realtà è lo spaccato di un presunto bunker sotterraneo in Ucraina, succede perché questa idea del «ah ma tanto dobbiamo andare in velocità» ti fa saltare il passaggio: se non sono riuscito a verificare in maniera indipendente, io quella cosa non la posto, non la pubblico, non la dico. Questo è il problema principale. Lo slow journalism non è necessariamente la soluzione, ma è almeno un approccio possibile che propone una soluzione a questo problema.”
Joe Casini: “Faccio un accostamento che mi è venuto in mente. Parlavi del dover pubblicare molti contenuti per le testate online e mi è venuto in mente un link con i siti delle aziende… fino a qualche anno fa quando c’era il boom della SEO molti siti venivano popolati da una quantità di contenuti senza senso, se non quello di fare indicizza i siti web sul server portale traffico. Quindi l’unico KPI che si guardava era il traffico che veniva generato, mentre negli ultimi anni si inizia a ragionare invece su «facciamo meno contenuti ma in target»: ragioniamo sulla nicchia, facciamo dei funnel di acquisizione, portiamo dei contatti che danno possibilità all’azienda di non avere centomila visitatori generici che servono e non servono, ma averne magari pochi ma di qualità che ti danno la possibilità di convertire, di fare vendita. Ecco, mi è venuto in mente questo link che forse è un po’ la stessa cosa, cioè concentriamoci su numeri magari più piccoli ma creando delle relazioni che abbiano una qualità maggiore ma soprattutto che diano la possibilità di dare maggior qualità nell’informazione che viene veicolata in quella relazione. È un po’ la stessa cosa secondo te?”
Alberto Puliafito: “Assolutamente sì, hai usato tutta una serie di parole che a me sono estremamente care. Tra l’altro una delle mie maledizioni era proprio che sono stato tra i primi a lavorare proprio sulla SEO applicata al giornalismo e questo ha generato nel corso della mia carriera lavorativa tutta una serie di equivoci perché il mio tentativo, già quando mi occupavo della SEO, era di portare il così detto traffico qualificato, cioè ti porto delle persone che sono veramente interessate dalle cose di cui tu parli… ma la verità è che la gente voleva pezzi tipo che ne so «Belen Rodriguez nuda», «Ecco come curarsi le unghie». Questo si è fatto per un sacco di tempo, è assolutamente la stessa identica cosa e il parallelismo è perfetto! Se tu guardi i vari piani editoriali SEO proposti per molti anni dalle aziende, l’idea quale era? Se tu hai l’azienda che ti vende qualche cosa che ha a che fare col consumo energetico tutti a scrivere il pezzo «Le sette idee per risparmiare energia in casa»… e alla fine ti trovi cento pezzi uguali e che cosa ce ne facciamo di quel contenuto lì?”
Joe Casini: “Da questo punto di vista magari sull’azienda questo passaggio ormai in parte è stato fatto, ma effettivamente sul giornalismo è più complicato da fare perché poi l’obiettivo ultimo quale è? L’abbonamento? I tempi di permanenza sul sito? La domanda che ti volevo fare tornando sul giornalismo, oltre a Slow News in generale tu come vivi la situazione e quali sono gli esperimenti che magari stai guardando con maggiore attenzione? Ci sono modelli che iniziano un pochino a prendere piede per uscire proprio dalla logica che dicevamo prima dell’articolo clickbait, con il titolone soltanto per andare a cercare sul feed e fare traffico?”
Alberto Puliafito: “Guarda ci sono un sacco di esempi interessanti generalmente, almeno in Italia, che vengono da realtà più piccole o più di nicchia. Anche fuori ci sono un sacco di esperimenti interessanti che si basano su concetti relazionali. Quello che vedo succedere dalle nostre parti con il consueto ritardo e che laddove prima si cercava il click indiscriminato adesso la fuori è tutto un paywall e che cosa fa questo? Fa sì che l’informazione di qualità comunque messa dietro a un muro arriverà solamente alle persone che hanno disponibilità a pagare. Questa è una riflessione alla quale mi ha fatto arrivare già parecchi anni fa l’ex direttrice della BBC News e le mode che mi diceva appunto: interessante l’idea dello slow news, ma se voi come modello di business rifiutate radicalmente la pubblicità perché pensate che la commissione tra giornalismo e pubblicità ormai sia necessariamente da superare per questioni di trasparenza, se tu metti come unico volano di ricavi del giornalismo il fatto che qualcuno ti paga allora la tua informazione – se sei veramente informazione di qualità – rimarrà un giocattolo per ricchi o comunque un giocattolo per persone che hanno disponibilità economica. Gli esperimenti più interessanti che vedo da qualche anno a questa parte sono quelli che si basano sul concetto di membership, cioè l’idea di darti il contenuto comunque disponibile gratuitamente chiedendo alle persone che hanno una disponibilità economica e una predisposizione a pagare di sostenermi perché in questo modo io posso continuare ad esistere ma posso anche continuare ad arrivare a persone che hanno bisogno o voglia di leggersi quella roba lì. Quindi noi facciamo così in Slow News, Il Post per citare una realtà nota in Italia fa la stessa cosa, Valigia Blu fa la stessa cosa… all’estero ci sono degli esempi come Zetland in Danimarca che trovano la loro via per cercare di costruire un rapporto conversazionale. In alcuni casi chiudono tutto, in alcuni casi lasciano delle cose aperte, in altri casi come nel nostro invece è tutto aperto e tu puoi leggere… ovviamente io cerco di dirti «se puoi sostienici» perché comunque fare le cose col tempo che ci vuole costa. Quindi diciamo che gli esperimenti più interessanti che vedo sono in questa direzione qua, c’è un esperimento che io adoro che rimane uno dei miei preferiti in assoluto da quando li ho conosciuti ed è un trimestrale cartaceo – meno male che l’ho detto che non volevo fare quella nostalgia – oggettivamente loro fanno un lavoro pazzesco, si chiamano Delayed Gratification che potremmo tradurre in «piacere ritardato». Sono un trimestrale che si occupa di cose che sono finite nei tre mesi precedenti al trimestre in cui hanno iniziato a lavorare, quindi il numero di luglio di quest’anno si occuperà di fatti finiti a gennaio, febbraio, marzo. Questi più o meno sono alcuni degli esperimenti, ma più che il singolo esperimento a me interessa anche vedere la logica che ci sta dietro.”
Joe Casini: “Anche parlando di esperimenti non hai fatto riferimento mi sembra ai social, quindi mi verrebbe da farti la domanda sul rapporto tra giornalismo e social, come lo vedi?”
Alberto Puliafito: “È problematico perché comunque tu ti affidi ad una piattaforma terza. Ci sono oggettivamente delle realtà che fanno un ottimo lavoro utilizzando i social come canale di distribuzione dei propri contenuti, credo che il social vada abitato dalla realtà giornalistica. Non penso sia necessario stare su tutti però dall’altra parte se un giornale, nuovo o vecchio che sia, vuole in qualche modo raggiungere un pubblico che oggi magari rifiuta il giornale di carta perché non fa parte della sua cultura, della sua predisposizione, oppure vuole raggiungere un pubblico laddove il pubblico c’è allora ha più che senso abitare quelle piattaforme. Uso il termine «abitare» proprio nel suo significato più importante, cioè l’unica cosa che non bisogna fare secondo me sui social è usarli come volano di traffico per portare gente sul sito fondamentalmente. Dopodiché per esempio ci sono degli esperimenti anche di grandi giornali, il Washington Post un paio d’anni fa ha affidato a un producer americano che si occupa di video il canale TikTok proprio dicendogli «vai e sperimenta e vediamo che possiamo fare» e lui ha iniziato facendo le challenge di TikTok in redazione e nel frattempo si è portato a casa un paio di milioni di follower sul canale, evidentemente raggiungendo un pubblico che il Washington Post prima non aveva. Da lì poi a dirti quel pubblico si convertirà in pubblico pagante, che quel pubblico contribuire alla sostenibilità del genere, non lo so, però ecco un approccio di quel tipo rispetto alle piattaforme social mi sembra estremamente intelligente, anche in qualche modo doveroso. Sono un po’ più scettico sui progetti che invece si basano solo ed esclusivamente sulla distribuzione via social perché ho un po’ paura che se poi ti crolla il giocattolo, siccome tu non hai pieno controlli, perdi contenuti.”
Joe Casini: “Abbiamo parlato di SEO, abbiamo parlato di feed discovery, eccetera… io ovviamente ora la domanda sull’esperienza in Google che è appena conclusa te la devo fare! La tua esperienza da teaching fellow in Google la vuoi raccontare brevemente?”
Alberto Puliafito: “Io ho lavorato fondamentalmente per un anno all’interno di questa struttura che si chiama Google News Lab che a sua volta fa parte della Google News Initiative. Il mio compito era solo ed esclusivamente quello di formare giornalisti in Italia. Esperienza interessantissima, ho fatto più di cento eventi di formazione più di 3.000 presenze agli eventi di formazione. I feedback sono sempre molto positivi ed è un’esperienza molto bella perché impari delle cose facendo lezione… in teoria doveva essere erogata tutta in presenza, poi causa Covid il grosso del mio lavoro è stato fatto in remoto. Quindi tutto molto bello, qualche volta ho sentito un po’ la mancanza del contatto fisico, altre volte invece dovendo insegnare a usare strumenti digitali avere delle persone tutte connesse che potevano replicare quello che stavo facendo io in tempo reale, magari condividermi lo schermo… delle volte avevi proprio il senso della realtà aumentata, cioè dell’idea che grazie al digitale, anche se non siamo tutti presenti intorno allo stesso tavolo, possiamo comunque lavorare tutti allo stesso progetto. C’è un enorme bisogno, un’enorme fame di formazione e una delle conferme che ho ricevuto in questo anno di esperienza è che per tanto tempo il digitale l’abbiamo un po’ travisato. Ma l’hai detto anche tu quando hai tirato in ballo la SEO per le aziende: tutte le volte che c’è qualcosa sul digital vedi questo questo gigantesco ecosistema pieno di opportunità spesso banalizzato con frasi tipo «bisogna fare i video brevi, bisogna postare tre volte al giorno» e tu dici: ma perché? Oppure appunto delle volte ti arriva la domanda che ti chiede quale è la lunghezza migliore per un podcast e tu ti rendi proprio conto fin da come viene formulata quella domanda lì di quanto abbiamo travisato. Purtroppo in questi casi le mie risposte probabilmente erano un po’ deludenti per chi faceva quel genere di domanda, ma la risposta era sempre: il tempo che ci vuole per raccontare correttamente le cose senza ammorbare il tuo pubblico.”
Joe Casini: “Sulla questione tempo volevo farti un’ultima domanda prima di passare alla fase del podcast dedicata alle domande degli ospiti. Volevo farti una domanda sul modo che tu hai di formulare un concetto che mi ha colpito moltissimo che è «l’ecologia digitale», che riprende in qualche modo il tema della lentezza, della quantità di informazioni che produciamo. Cosa intendi per ecologia digitale?”
Alberto Puliafito: “Intendo tenere pulita anche l’infosfera, non mandare un messaggio WhatsApp per dirmi che mi hai mandato una mail se non ti ho risposto dopo cinque minuti, oppure ripeto non produrre tutti lo stesso contenuto solo perché ce l’hanno anche gli altri. Un concetto molto bello introdotto da un importante analista americano Jeff Jarvis è il concetto che sul digitale tu potresti concentrarti su quello che sai fare meglio e linkare il resto, ed è un concetto se ci pensi estremamente ecologico perché vuol dire che se qualcuno ha già coperto un fatto bene e io magari non sono lì oppure non ho un’altra persona da mandare, ma perché dovrei riscrivere riformulando quello che ha fatto quella persona? Questa è una cosa, tra l’altro, che noi ci portiamo appresso in Italia, dove facciamo una fatica enorme a citare gli altri. Per esempio quando il New York Times se ne esce con una grossa inchiesta e il Washington Post non ha l’equivalente fanno il pezzo e linkano. Abitare gli ecosistemi è un’altra idea di ecologia digitale, perché se tu abiti il posto si spera cercherai di tenerlo pulito e quindi fare meno per farlo meglio, non necessariamente spingendo il minimalismo alle sue estreme conseguenze, ma cercando di ricordarci che troppo rumore, troppa sporcizia, troppo caos costituisce l’humus perfetto per quei fenomeni che poi prendono nomi o etichette variabili che io preferisco catalogare sotto un concetto più ampio di «disinformazione». Detesto l’etichetta «fake news», trovo che sia un’etichetta sbagliata. Avere un minimo di senso della misura, sia nella produzione sia nel consumo, secondo me non può che farci bene e concentrarci dal punto di vista giornalistico sulla produzione di contenuti che non sono ossessionati dall’ultimo argomento. Adesso, per dirti, io non lo so che opinione ho su una cosa che ho seguito di recente negli ultimi mesi che tutti avranno seguito, il processo tra Amber Heard e Johnny Depp… non lo so, non ho un’opinione e neanche mi interessa averla, per formarmela dovrei leggere le carte. Ecco, a cominciare ad adottare questo processo qua almeno dal punto di vista di chi produce contenuto giornalistico e culturale è un’idea di ecologia digitare.”
Joe Casini: “Prima di passare alle domande degli ospiti, dicevi non ti piace il termine «fake news»: perché?”
Alberto Puliafito: “Non mi piace perché in due secondi io e te diventiamo l’uno la fake news dell’altro se abbiamo deciso che non andiamo d’accordo. Quindi io posso usare l’etichetta «fake news» per dire che tu hai detto una cosa falsa di me, anche se magari non è vero e tu potresti fare lo stesso con me. Se noi avessimo una conversazione sui social e cominciassimo a litigare e ci accusassimo reciprocamente di dire fake news, creeremo polarizzazione, e che cosa succederebbe? Che i miei amici prenderebbero le mie parti, i tuoi amici prenderebbero le tue e alla fine nessuno capirebbe più di cosa stiamo parlando veramente. Lo ha fatto Donald Trump dicendo che i giornalisti sono fake news, lo fanno tutti quelli che si sentono in qualche modo attaccati. In più l’etichetta fake news si porta appresso da un lato l’idea che possa esistere da qualche parte un «tribunale della verità», dall’altro l’idea che se esistono delle fake news allora io dovrò introdurre dei fenomeni correttivi. Non so se ti ricordi qualche anno fa sul sito della Polizia Postale tu potevi andare a segnalare le fake news online mettendo il link ed era geniale perché volendo tu potevi mettere il link del sito stesso della Polizia Postale! Quindi come tutte queste etichette io trovo che sia una semplificazione eccessiva che non fa capire bene le cose e noi abbiamo bisogno, invece, di usare termine anche complessi prendendo il tempo che ci vuole per spiegare questi termini e per parlarne insieme.”
Joe Casini: “Allora Alberto ti ringrazio per la chiacchierata che è stata interessantissima, poi abbiamo chiuso in maniera circolare il che di solito è sempre un buon segno e ti passo quindi la passa per quanto riguarda le domande degli ospiti. Il nostro podcast proprio per favorire appunto questi momenti di complessità diamo la possibilità agli ospiti di farsi delle domanda da una puntata all’altra, quindi nel tuo caso ho una domanda che ti viene posta dall’ospite della puntata precedente che è stata Rossella Pivanti, ti darò poi la possibilità di lasciare una domanda a tua volta all’ospite della prossima puntata. Allora la domanda che ti ha lasciato Rossella riprende un po’ il tema dell’ecologia digitale, perché lei ti ha fatto una domanda devo dire che mi ha colpito molto: nel momento in cui devo scrivere qualcosa e quindi prendo un pezzo di carta per scrivere qualcosa io ho una percezione molto chiara del fatto che ho consumato un foglio di carta, e quindi in qualche modo l’impatto ambientale, l’impronta ecologica di quella mia attività. Forse con il cloud si perde un po’ questo impatto, magari prendo un server che ha più risorse di quelle che sono necessarie per far girare il sito e queste risorse – al di là dell’aspetto strettamente economico – sono comunque uno spreco per la collettività. Oppure magari conservo una marea di documenti in cloud e il fatto che siano in cloud e digitalizzati non mi da l’impressione di quante risorse sto consumando. Quindi la domanda di Rossella è: c’è anche una questione legata agli aspetti culturali, di cui parlavi tu, anche in termini strettamente ambientali?”
Alberto Puliafito: “Assolutamente sì e infatti una delle ragioni, secondo me, di questo approccio che travisa il digitale deriva proprio dal fatto che lo viviamo come un qualcosa di immateriale. La maggior parte delle persone non l’ha mai vista la foto – non l’ha mai visto dal vivo, figuriamoci – ma almeno la foto di come è fatto un data center, di quanti cavi e hard disk, di che impatto può avere quel data center là, del fatto che è presente e fisicamente tangibile. In più non ci rendiamo neanche conto di quante tracce di noi stessi lasciamo sul digitale, ci siamo convinti un po’ ingannati da uno dei formati di maggior successo
della contemporaneità che sono le stories che il digitale sia il regno dell’impermanenza, del messaggio volatile. In realtà sul digitale lasciamo, proprio per questa ragione, una serie di impronte e di tracce di noi stessi notevole e più non ci rendiamo conto che se invece di produrre produrre produrre ci occupatissimo di manutenere, con il digitale avremo una straordinaria opportunità. Esempio: un giorno stavo leggendo il mio manuale delle Giovani Marmotte a mia figlia. Su quel manuale, penso che sia stato fatto alla fine degli anni Ottanta se non Novanta, c’era scritto che quando vai a fare un picnic non devi
lasciare i resti lattinacei e cartacei in giro perché sennò: primo, il il Gran Mogol ti da uno scapaccione, vabbè metodo educativo oggi opinabile, e secondo il manuale delle Giovani Marmotte consiglia di scavare una buca e metterci la roba dentro e coprirla. Allora questo comportamento una volta stampato sulla carta tu sei spacciato perché è finita, ormai ce l’hai lì e infatti quel manuale ristampato ripropone ancora quel comportamento che oggi è reato ambientale. Sul digitale se invece di produrre produrre produrre ci occupatissimo anche di manutenere e quindi di pensare «ma io ho un archivio incredibile, questi contenuti che sono digitalizzati possono avere un valore oggi?» Certo che sì, perché si posizionano proprio sui motori di ricerca, perché rappresentano lo storico, perché li potrei aggiornare. Quindi io quella stessa pagina li del Manuale delle Giovani Marmotte degli anni Ottanta, oggi nel 2022 la potrei riscrivere dicendo «pensa quarant’anni fa o più dicevamo questo ma non ci rendevamo conto che era completamente sbagliato». Cominciare a fare questo tipo di ragionamento e rendersi conto che il digitale è permanente e ha una sua impronta ci aiuterà neanche vederlo in un’ottica diversa rinunciando a questa sovrapproduzione ossessiva e dedicandoci, invece, alla manutenzione che, secondo me, potrebbe essere un ottimo lavoro per pulire un pochettino e per occupare meno spazio, per inquinare di meno pure l’infosfera.”
Joe Casini: “Assolutamente sì, tra l’altro mi fa venire in mente una puntata che abbiamo fatto con Andrea Pescino parlando di intelligenza artificiale. Andrea faceva una riflessione su come l’addestramento degli algoritmi spesso consuma quanto una piccola cittadina. Quindi anche lì si parla moltissimo di addestrare gli algoritmi per qualsiasi cosa, invece anche l’impatto ecologico delle attività digitali è un fenomeno che viene trascurato. A questo punto è il tuo momento, nella prossima puntata invece avremo ospiti Le Sex en Rose che sono una coppia che si occupa di sessualità e in particolare parla di sessualità legata agli aspetti digital. Hanno un profilo Instagram molto seguito, quindi parleremo di sessualità e di come i cambiamenti culturali, ma anche tecnologici di questi anni hanno anche un po’ cambiato il nostro approccio all’argomento. Non so se vuoi lasciare una domanda per Le Sex en Rose.”
Alberto Puliafito: “Una curiosità, quando ero giovane e mi occupavo della SEO una delle nostre ossessioni erano i cosiddetti contenuti adult nel senso che tu dovevi assolutamente evitare di far arrabbiare l’algoritmo dandogli in pasto dei contenuti che potessero essere interpretati come anche solo soft porn, diciamo così, perché altrimenti rischiavi penalizzazioni. Ora nell’era delle piattaforme sappiamo che molto spesso sentiamo le notizie leggere in cui c’era il nudo dell’artista famoso che è stata censurato da Instagram, invece altri contenuti passano il filtro della moderazione. Mi incuriosisce capire come facciano loro a combinare la parte diciamo divulgativa di un progetto in cui si parla di sessualità col fatto che devi sottostare a delle regole terze quando stai sulle piattaforme.”
Joe Casini: “Sarà uno spunto utilissimo per portare avanti la chiacchierata con Le Sex en Rose, mi era venuto mentre dicevi il nudo di un artista famoso, se non sbaglio qualche mese fa si discusse molto del fatto che Facebook aveva censurato la famosa foto della bambina durante la guerra in Vietnam, quindi è un tema che andremo assolutamente ad esplorare. Grazie Alberto per la domanda e grazie per essere stato con noi.”
Alberto Puliafito: “Grazie è stato un piacere.”
Joe Casini: “A tutti gli ascoltatori vi do appuntamento tra due settimane e faremo una chiacchierata con Le Sex en Rose. Buona domenica a tutti.”