Nel 2006, Stacy Snyder, una venticinquenne della Pennsylvania pubblicò una foto sulla sua pagina di MySpace che la ritraeva a una festa, mentre beveva da un bicchiere di plastica ed indossava un cappello da pirata. Nella didascalia si leggeva:“piratessa sbronza”.
Dopo aver visto la foto, il preside della scuola la accusò di promuovere il consumo di alcol tra i suoi alunni minorenni: a pochi giorni prima della sua laurea, l’università le negò la specializzazione e di conseguenza l’abilitazione all’insegnamento.
“Quando gli storici del futuro guarderanno indietro ai pericoli della prima era digitale, Stacy Snyder potrebbe diventare un simbolo”, ha scritto quattro anni dopo Jeffrey Rosen, giornalista del New York Times. Il simbolo del web che non dimentica e dei suoi potenziali effetti negativi.
Non è una novità: già nel 1890, al momento dell’introduzione delle macchine fotografiche Kodak, e della diffusione dei tabloid, le persone si preoccupavano che il progresso tecnologico minacciasse la propria privacy. Ma la pervasività di Internet e dei social network supera di gran lunga le peggiori paura vittoriane.
Da queste premesse nascono le leggi sul diritto all’oblio, ovvero la forma di tutela che dovrebbe impedire la diffusione di informazioni non rilevanti a livello pubblico o temporale che danneggino la nostra reputazione.
Con Internet, tuttavia, la definizione stessa di “diffusione” diventa complessa. Come scrive Anna Cataleta su Agenda Digitale “la problematica più rilevante oggi non è relativa alla difficoltà di cancellare una notizia o una foto o un video pubblicati dalla fonte originaria ma alle ripubblicazioni che permangono sempre accessibili. Per questo motivo, la riflessione da fare oggi, per far salvo il diritto all’oblio, è su quanto può permanere pubblicamente disponibile una informazione online, prescindendo dal tempo trascorso dalla prima pubblicazione, che potrebbe aver fatto perdere alla notizia anche attualità e interesse pubblico”.
In Italia, il diritto all’oblio è relativamente “nuovo”, essendo comparso solo a partire dagli anni 1990 e si applica sia ai cittadini comuni che ai personaggi che hanno (o hanno avuto) grande notorietà. Ma esistono ancora molte questioni aperte.
La prima riguarda la deindicizzazione delle informazioni, ovvero la modifica degli indirizzi web che permette ai contenuti di non essere più facilmente accessibili tramite i motori di ricerca. La applicano soprattutto le cosiddette agenzie di “web reputation” per assecondare le richieste dei loro clienti: è una pratica legale, ma non ancora ben esplorata dal diritto ed eticamente discutibile. Il web non dimentica, insomma, ma può far finta di non ricordare.
La seconda riguarda la vita digitale di chi non c’è più. Di questo passo, infatti, secondo uno studio dell’Università di Oxford, entro il 2100 Facebook ospiterà circa 4,9 miliardi di profili di utenti deceduti, superando il numero di quelli in vita. Da qualche anno, le piattaforme hanno iniziato ad adattarsi a questa prospettiva: sia Facebook che Instagram permettono di trasformare il profilo di una persona defunta in un account commemorativo, gestito dal cosiddetto “contatto erede” o da chiunque riesca a dimostrare a Meta di essere una persona vicina al defunto. A differenza di altri profili, quelli commemorativi non appaiono nei post sponsorizzati, nella sezione “Persone che potresti conoscere” o nelle notifiche sui compleanni.
Su Facebook, gli account commemorativi contengono una sezione extra, chiamata ‘In ricordo’, dove amici e famigliari possono continuare a pubblicare foto e messaggi.
“I social network, da un lato, riportano di fronte ai nostri sguardi quella morte che vogliamo in tutti i modi rimuovere e tenere alla larga dalla nostra vita quotidiana. Dall’altro, ripropongono una versione collettiva del lutto in svariate modalità”, ha spiegato in un’intervista il filosofo Davide Sisto, che studia il modo in cui le tecnologie digitali stanno modificando il nostro rapporto con la morte, la memoria, il lutto e l’immortalità.
Il web, in fondo, ci mette di fronte a uno dei dilemmi più grandi dell’umanità, quello che ci ha spinto a scrivere, costruire, uccidere: essere ricordati o essere dimenticati.
Per secoli, abbiamo fatto di tutto per essere ricordati: a pochi decenni dalla nascita di Internet, forse siamo già pronti a cambiare idea.