Con il sociologo Massimo Cerulo raccontiamo in quale modo le aziende e la società hanno sviluppato i propri modelli di sviluppo intorno ad un ristretto gruppo di emozioni umane. E come fare a orientarsi senza cadere nella trappola del capitalismo emotivo.
Joe Casini: “Buongiorno, buona domenica e benvenuti ad una nuova puntata di Mondo Complesso, il podcast dedicato al mondo della complessità e a questo nuovo mondo nel quale viviamo. Oggi abbiamo come ospite Massimo Cerulo, quindi per prima cosa benvenuto!”
Massimo Cerulo: “Buongiorno e buona domenica.”
Joe Casini: “Massimo è professore ordinario di sociologia all’Università di Napoli, la Federico II, nonché ricercatore associato alla Sorbona di Parigi, ha scritto moltissimi libri è anche editorialista su Huff Post, quindi in questo siamo colleghi, e in particolare dei vari temi di cui si occupa, si occupa in generale del ruolo delle emozioni nelle interazioni sociali, in particolare c’è un concetto che sarà un po’ il fil rouge della puntata che è quello del capitalismo il motivo che è un concerto che Massimo ha approfondito molto e del quale avremo modo senz’altro di parlare. Quindi Massimo se sei d’accordo direi di cominciare.”
Massimo Cerulo: “Con molto piacere.”
Joe Casini: “Noi come prima cosa abbiamo il momento della domanda semplice ed è: cos’è il capitalismo emotivo?”
Massimo Cerulo: “Il capitalismo emotivo è una specifica forma di cultura che possiamo tradurre come la cultura della manifestazione delle emozioni. Quindi la cultura di esprimere determinate emozioni seguendo la regola del profitto, la regola dell’interesse, interesse personale, interesse di gruppo, interesse collettivo, in generale interesse della società. Poiché la società nella quale viviamo, parliamo della società occidentale chiaramente, generalizzando è una società delle emozioni, siamo costretti a manifestare quotidianamente e continuamente, determinate emozioni che sono preparate, preconfezionate, scritte a tavolino come se fosse un canovaccio della conversazione, un copione scritto da altri e questi altri possono essere l’industria, il mercato, il mondo digitale, i social media o anche datori di lavoro, amministratori delegati, genitori, docenti, partner, che ci impongono, in un’ottica di omologazione alle forme di comunicazione prevista, soprattutto da una società occidentale che potremmo anche definire società digitale, a esprimere le emozioni che un po’ tutti gli altri si aspettano che noi esprimiamo. Lì nasce un problema con l’autenticità delle proprie emozioni.”
Joe Casini: “Con questa risposta hai praticamente riassunto un po’ tutte le puntate che abbiamo fatto finora nel podcast, nel senso che questo è un tema straordinario, mi attira moltissimo proprio perchè hai toccato tutto quello di cui parliamo da queste parti. Il tema delle emozioni sicuramente è centrale, il ruolo del business, organizzazione di società, in qualche modo l’hai detto parlando in generale ma anche il ruolo delle tecnologie, quindi credo avremo pane per i nostri denti. Per andare avanti andiamo a quella che chiamiamo la domanda nella domanda. Quindi la prima cosa che ti domando è vorresti una domanda che sia più sul capitalismo o più sulle emozioni?”
Massimo Cerulo: “Io preferirei le emozioni, considerando il mio ramo sociologico.”
Joe Casini: “Ok, allora andiamo più sulle emozioni. La vorresti più con un taglio personale o con un taglio professionale?”
Massimo Cerulo: “Direi professionale.”
Joe Casini: “Perfetto. Come ti dicevo, hai toccato tutti i temi che in questo podcast vengono ripresi spesso soprattutto il tema delle emozioni, noi veniamo da una tradizione culturale, forse soprattutto scientifica, dove c’è il mito della razionalità, ancora ci trasciniamo questa impostazione. Oggi, invece, si comincia a parlare di soft skills, competenze emotive, competenze relazionali, queste tematiche iniziano ad essere sdoganate o comunque integrate nei percorsi anche formativi. Manteniamo però un gap molto forte tra l’attenzione che riserviamo alla formazione tecnica e anche la formazione culturale, quindi abbiamo sistemi Universitari molto strutturati durante la vita lavorativa, la formazione è un aspetto spesso contrattualizzato, ma è formazione spesso molto tecnica. In generale investiamo e diamo molta importanza a questi aspetti e ancora meno ne diamo agli aspetti emotivi, quindi magari la competenza emotiva, la competenza relazionale è sempre qualcosa che viene data un pochino per implicito, cioè tu vai a scuola e hai anche quella parte lì ma non è mai oggetto di studio, stessa cosa spesso sul lavoro. Quindi la domanda che ti volevo fare è: secondo te c’è effettivamente questo gap? E se c’è perché? Come mai tendiamo ancora a sottovalutare, trascurare o a difenderci dagli aspetti emotivi?”
Massimo Cerulo: “Questo è un punto principale che riguarda la competenza emozionale, come hai chiarito tu, siamo sempre molto attenti a formare in termini tecnici, ma non in termini emotivi, perché abbiamo paura del nostro santuario interiore, anche chi dovrebbe formare per farlo dovrebbe essere capace di guardarsi dentro e di maneggiare con cura le proprie emozioni. Non lo si fa perché continuiamo a vivere, e qui entriamo in un ambito prettamente italiano, in una società che è la società della colpa e non è la società della vergogna, ha molto a che fare con le religioni. Il cristianesimo è la società della colpa quindi se compiamo qualcosa che è ritenuto peccato, sbagliato, possiamo pentirci quindi auto perdonarci, mentre la società della vergogna, pensiamo ad altri tipi di religione, impone un’accettazione da parte della comunità, una sorta di pentimento pubblico. Poiché noi siamo abituati a tenerci tutto dentro non abbiamo questa facilità nel lavorare sulla competenza emozionale, faccio un esempio: quando parliamo di lavoro emozionale durante corsi di formazione in aziende o anche in enti e fondazioni, il lavoro emozionale ‘è quello sforzo che il lavoratore, la lavoratrice deve mettere in atto perché stipendiata per farlo. Molte volte quando parlo di lavoro emozionale e spiego le tipologie di lavoro emozionale le persone che lavorano per quell’azienda non ne hanno mai sentito parlare, non hanno mai avuto un formazione del genere in tal senso, cosa significa esprimere un’emozione con un grado maggiore o minore di intensità? Cosa significa sorridere in un determinato modo piuttosto che in un altro? Cosa significa esprimere le emozioni attraverso uno specifico utilizzo del corpo, non soltanto del viso, ma delle mani? Questo è un problema, quello sollevato da te, che parte dalla scuola. se noi andiamo a vedere le prime esperienze di formazione, quindi restiamo nella scuola primaria, i bambini e le bambine ancora oggi sono portati ad avere un insegnamento che non riguarda quello che potremmo definire situazione di conflitto emozionale, quindi nel momento in cui c’è un conflitto emozionale come lo risolviamo? Conflitto emozionale che inevitabilmente si verificherà con l’arrivo della pubertà, dell’adolescenza, della giovinezza, nell’ingresso nel mondo del lavoro. Nella scuola primaria ma anche nella scuola, che in Italia, definiamo media, c’è un’attenzione a definire la vita nell’aula e fuori dall’aula come la vita bella, una situazione irenica. Bisogna essere felici, bisogna essere allegri, i genitori sono più bravi del mondo molto spesso la religione Cristiano Cattolica è la migliore che ci sia, la famiglia è quella di papà mamma, quindi maschio e femmina del bambino, senza neanche prendere in considerazione una serie di forme di conflittualità emotiva che sono inevitabilmente legate a forme di problematiche di vita vissuta. La vita reale è una vita piena di problemi, la vita in società, in rapporto con gli altri significa scontrarsi, incontrarsi con gli altri vuol dire scontrarsi, con differenti modi di vedere la realtà sociale e quindi di vivere emotivamente la realtà sociale. Se non creiamo delle tipologie, delle tassonomie, delle forme di problem solving è chiaro che poi noi abbiamo, dall’università o i primi anni di lavoro, dei soggetti che o sono fortemente complessati perchè non sono mai riusciti ad affrontare traumi dell’adolescenza, addirittura dell’infanzia o soggetti che credono di entrare in un mondo del lavoro che sia l’azienda, che sia il lavoro pubblico e lavoro privato, come se tutto dovesse essere loro concesso, è completamente a disagio quando si parla di problem solving o di competenze emozionali, capacità di risolvere emotivamente i tuoi problemi e i problemi degli altri quando si lavora in equipe.”
Joe Casini: “Mi piace moltissimo perché ci muoviamo un po’ su questa linea, da una parte c’è una questione di benessere personale e credo che idealmente nella nostra società questo dovrebbe essere sufficiente per porre l’attenzione su questi temi, spesso così non è, dall’altra parte pure tu rimandavi spesso che è una questione che diventa una cultura abilitante, cioè la capacità emotiva e relazionale in uno scenario competitivo come può essere quello aziendale, ma anche da un punto di vista di stabilizzare le nostre società, cioè quanto più siamo in grado di modulare e avere un atteggiamento empatico, capire e capirci tra di noi, quindi avere una comunicazione più fluida come agenti di una stessa rete tanto più si sbloccano risorse, quindi in un’azienda può diventare un elemento fortemente abilitante. In generale nelle società veniamo da anni di forte tensione, anche di forte instabilità, anche gli umori elettorali cambiano facilmente quindi tutto ciò dovrebbe andare nella logica di avere maggiore dimestichezza con quello che proviamo, sentiamo e quello che provano gli altri probabilmente diventa un elemento critico in questa fase che stiamo vivendo.
Massimo Cerulo: “Ci sono dei punti che hai toccato, secondo me, fondamentali. La prima è la questione dell’empatia e della rabbia, li definirei così: l’empatia è un termine talmente equivocato oggi da dover mettersi su a scrivere diversi articoli per l’Huff Post per provare a diffondere il concetto scientifico e medico di empatia, su questo mi limito a consigliare un testo di Anna Donise ‘critica della ragione empatica’, ci fa capire con tanti esempi di vita quotidiana come anche il sadico è empatico. Non è che empatia significa essere buoni, essere allegri, essere bravi, addirittura in termini morali. Assolutamente no, il sadico o l’assassino è una persona che molto spesso è empatica. Cosa significa empatia? L’importanza delle parole, l’importanza dell’approfondimento delle parole, dello studio sulle parole. Il secondo punto riguarda quello che io definisco la forte ambivalenza nella società delle emozioni odierne, da una parte noi viviamo nella nostra vita professionale imbalsamati in termini emotivi, cioè l’espressione delle nostre emozioni deve essere molto regolata, normata, se pensiamo a quando arrivarono le grandi aziende californiane in Italia, ci sono anche delle sedi aziendali che ‘copiano’ le modalità lavorative della California, sono state normate emotivamente anche in momenti di pausa, in queste aziende, riportate circa 10 anni, sono iniziate a nascere la sala del solo, la sala del gioco, la sala brainstorming e via dicendo, qualsiasi espressione emotiva doveva essere normata, altrimenti rischiavano di trasformarsi in quello che oggi definiamo, anche qui con molta confusione, esplosione di rabbia. Prima parte dell’ambivalenza, le nostre manifestazioni emotive, sono estremamente normate, regolate, vincolate al profitto. Seconda parte dell’ambivalenza la stessa società nella quale viviamo, la società digitale, continuamente ci bombarda di slogan e di imperativi sull’autenticità da raggiungere, sii te stesso, viva l’autenticità, prenditi questi 3 giorni del weekend dei ponti per ritrovare il tuo benessere nella spa, nella città d’arte e via dicendo. Regolamentazione delle emozioni molto forte da una parte, autenticità dall’altra nel mezzo si trova il soggetto che non riesce più ad andare in profondità nelle sue azioni, ma non fa altro che vivere in maniera omologata, di superficie in sociologia c’è un termine che si dice così, in maniera un po’ poco attenta alle questioni di genere, essere umano blasé ovvero quell’essere umano che sotto una giornata di pioggia indossa un impermeabile e non si interessa della pioggia che gli cade addosso, è l’essere umano che ha visto tutto, non si sorprende più di nulla, ma si comporta come tutti gli altri si aspettano che lui si comporti, senza iniziative personali, senza inventiva, senza capacità di immaginazione perché la società delle emozioni, badando al profitto, badando al conseguimento di incentivi, di premi, di promozioni, cosa fa? Da una parte sprofonda, quindi nel esonda nella sfera privata, andiamo a guardare il numero di separazioni, divorzi, violenze sulle donne e violenze sui bambini o sui figli e quindi esondando nella sfera privata viene sempre meno il tempo, lo spazio per restare da soli con se stessi, sfruttare il silenzio o restare con le persone amate per provare a confrontarsi faccia a faccia. Dall’altra questa esondazione della sfera professionale nel privato porta una società della competizione che arriva a livelli estremi e lì si apre la tendenza di estrema attualità del tema dei suicidi. Noi sappiamo già che i suicidi partono già da scuola per poi arrivare in università, tempo fa i colleghi di Repubblica scrissero un’indagine molto bella.”
Joe Casini: “Immaginavo si sarebbero aperte molte finestre, anche negli ascoltatori quando abbiamo lanciato il box domande sono arrivati parecchi contributi. Ti domandano: in un mondo sempre più connesso come quello in cui viviamo la folla di cui parlava Le Bon si può riflettere sui social media? Quindi rimanendo un po’ sul tema della una società digitale, riprendendo un grande classico della sociologia, gli ascoltatori chiedono che lettura si può fare della società digitale.”
Massimo Cerulo: “Sicuramente Le Bon funziona sempre e insieme a lui funziona un altro sociologo che arriva dopo ma che segue la psicologia delle folle di Le Bon chiama Gabriel Tarde che scrivi un libretto delizioso che si chiama ‘la costruzione sociale dei sentimenti’, sia Le Bon poi tard sarebbero a loro agio con la società digitale e con i social media perché riflette la società e quindi ci fa perdere di vista l’inquadramento, la cornice all’interno della quale noi ci muoviamo e ci convince della nostra autonomia, nel postare immagini, nello scattarsi, i selfie, nel commentare quello che fanno altri e poi nei video, in realtà non funziona così. L’esempio che faccio spesso è quello del Biliardo: noi dobbiamo considerare un biliardo, prendiamo due palle da biliardo, ne lanciamo una poi ne lanciamo un’altra oppure le lanciamo simultaneamente. Le due palle da biliardo sono due soggetti che hanno dei profili nei social media, che quindi vivono nella società digitale, possono percorrere traiettorie differenti sul panno verde , possono perfino scontrarsi, però queste palle hanno traiettorie diverse. Le nostre vite individuali percorrono traiettorie diverse anche in termini di espressione emotiva, io manifesterò il mio amore nei confronti di mia nipote con dei comportamenti corporali di un certo tipo, mia moglie manifesterà lo stesso amore in comportamenti corporali di un certo tipo ma il punto che noi tendiamo a dimenticare, e su questo i social media funzionano da oppio dei popoli, è che non si può uscire dal biliardo. Nel momento in cui si esce dal biliardo la palla viene presa e si riparte dall’inizio, quelle rare volte che per una forza nel lancio si esce dal biliardo, si resta nel biliardo e il biliardo rappresenta la cornice normativa all’interno della quale noi possiamo muoverci, non c’è altra via d’uscita se non quella di spegnere i social o di chiudere tra virgolette il nostro profilo. Non stiamo dicendo niente di nuovo perché conosciamo il potere degli algoritmi e conosciamo il potere coercitivo dei social media però secondo me è sempre importante ricordare questa forma di coercizione che, in un certo senso, esercita il social media e che allo stesso tempo resta ambivalente perché altrimenti corriamo il rischio, magari prendiamo un mio libro per dire ‘lui sì che ha capito come i social ci stiano annebbiando le menti’, da una parte funziona la regolamentazione e la coercizione delle espressioni emotive, dall’altra non dimentichiamo che i social media sono anche strumenti di libertà, di immaginazione, di creazione di legami sociali, altrimenti finiamo come nei regimi dittatoriali dove si ritiene che la società digitale sia controproducente nei confronti dell’essere umano. Quello che io voglio sottolineare è che la società digitale nella quale viviamo, la società delle emozioni, come la chiamo io, è sempre comunque ambivalente praticamente tutte le sue manifestazioni. Dobbiamo avere la capacità di interrogare più persone per scoprire più prospettive su quell’argomento o sull’evento che si sta verificando, non farsi mettere i paraocchi da visioni morali, visioni religiose, visioni stereotipate. L’ultima cosa che volevo dire: hai citato il termine populismo. Una collega parigina del laboratorio dove stiamo insieme, si chiama Eva Illouz, esce in giugno con un testo con il titolo ‘la vita emozionale del populismo’ e lei prova a farci capire come queste società che hanno sposato il populismo, molti paesi europei lo hanno sposato e continuano a farlo, traducono in manifestazioni collettive l’ambivalenza in cui si trova il soggetto contemporaneo. Da una parte gli viene detto che non può manifestare rabbia, iracondia, nervosismo, perché deve pensare al profitto, deve pensare il buon nome della società, al buon nome della famiglia, al buon nome della collettività, al buon nome del condominio, dall’altra parte leader politici si pongono in maniera emotivamente aggressiva, non è un caso che in Italia, in Francia, in altri paesi europei da circa 7-8 anni siano arrivate le stanze della rabbia, molto frequentate dai giovani nelle grandi città italiane, si paga per 30 minuti ti fanno lasciare il documento, ti fanno entrare in una stanza più o meno di 15 metri quadri e li trovate dei bastoni, delle mazze da baseball, degli strumenti vari per rompere materialmente sfogare la vostra rabbia nei confronti di oggetti che di solito sono già mezzi rotti, come se il mercato si sia accorto di questa necessità di fornire delle valvole di sfogo ai soggetti presi dalla morsa del populismo.”
Joe Casini: “Andando avanti c’è il momento della domanda del filo del rasoio. Quando parliamo di emozioni spesso in ottica business, nel marketing, in particolare negli ultimi anni si parla anche di bayas, il tema di andare ad utilizzare le conoscenze sulle leve emotive per avere poi un profitto e quindi un ritorno positivo in questo senso per l’azienda, questa dinamica mi ricorda anche un po’ la spinta gentile, quindi il fatto di poter predisporre, incanalare le azioni che compiamo in maniera spesso inconscia in comportamenti virtuosi o magari no. La domanda che ti volevo fare è: dov’è, secondo te, la linea di demarcazione tra questi due aspetti? Sul fatto che i tecnici possano utilizzare le competenze che hanno per promuovere comportamenti virtuosi per la società o profittevoli per le aziende e quand’è che si scavalla?”
Massimo Cerulo: “È molto confusa questa linea perché chi è competente in termini di capitalismo emotivo può utilizzare queste competenze e sono sempre pochi perché poi essere competenti in termini di capitalismo emotivo significa anche avere il capitale finanziario per poter investire, per poter costruire nuove società, nuovi gruppi, nuovi aziende o per creare nuove startup perché alla fine può funzionare anche in quel modo e quindi significa utilizzare più pifferi, se voi pensate alla pifferaio con dietro i topi, più pifferi per incantare con nuove melodie quella massa, quella collettività di cui parlava Le Bon. A un certo punto in psicologia della folla Le Bon racconta questo esempio di un gruppo di bambini che lui guarda in questa piazza che a un cenno della maestra verso un chiosco che vendeva gelati la seguono come incantati da questa immagine del gelato, da questo invito vocale della maestra. Ecco molto spesso chi non detiene competenze emozionali, chi non detiene strumenti per analizzare le proprie emozioni in termini di espressività, in termini manifestazione, in termini di creazione di legame sociale con gli altri non fa altro che adeguarsi a, non solo regole stabilite da altri, ma visioni dominanti della realtà. Sono le missioni degli altri sulla realtà che diventano visioni dominanti e che possono trasformarsi in forme di violenza simbolica, ossia, quella violenza ‘subdola’ perché è nascosta che spesso viene esercitata con la dialettica, con l’eloquenza, qualche volta anche con l’ironia sfruttando quel deficit di incapacità emotiva comportamentale o culturale detenuta da lavoratori, lavoratrici, persone che in quel momento si trovano in quella società, ma non hanno delle competenze tali per poter rispondere o per poter semplicemente svelare l’illusione che c’è dietro.”
Joe Casini: Potremmo quindi pensare alla competenza emotiva come una sorta di firewall.”
Massimo Cerulo: “In termini informatici è una sorta di firewall per svelare quello che c’è dietro, quali sono gli obiettivi nascosti del mercato, mi fai sempre tornare in mente la memorabile puntata di Black Mirror, ‘caduta libera’ in italiano, nella quale lei vive in una sorta di società digitale nella quale tutto viene vincolato al raggiungimento di like. Quindi in base al numero di like che tu hai conseguito, puoi acquistare casa, prendere un determinato affitto invece che un altro..”
Joe Casini: “Un po’ come il sistema di credito sociale cinese”
Massimo Cerulo: “Che va avanti e che in alcune piccole comunità sembra sia assolutamente già in voga.”
Joe Casini: “La direzione distopica, come al solito poi questo è un altro aspetto su cui torniamo molto, ci sono spesso pensando al futuro ma in generale a tutta la parte fantascientifica e la parte creativa spesso ci danno delle direzioni che tendiamo a trascurare e a rilegare all’intrattenimento poi in realtà è pieno di esempi celebri. Ora passiamo alla domanda della birra di troppo. Una cosa che mi colpisce molto e stavi già anticipando anche tu è che il capitalismo è il fenomeno più antifragile, cioè sembra avere in sé la capacità, ogni volta che si prova ad avere un modo in una direzione opposta penso alla nascita di Internet ma potremmo farne tanti di esempi, di prendere quel movimento e riportarlo al suo interno. Come dicevi tu esce fuori dal biliardo la pallina viene presa e buttata dentro. Secondo te c’è questa dinamica? E se c’è perché? Qual è effettivamente la capacità che ha il capitalismo che lo mette in condizioni di essere ineluttabile, anche inesorabile, in termini latini inexorabilis, nel senso che non si piega alle nostre preghiere. Se pensiamo ad un emblema del capitalismo degli ultimi anni c’è il Black Friday, che vive su tempo e quantità di quel determinato prodotto, dei minuti e delle ore che sono dedicati a una determinata scontistica che viene presentata e un numero di quantità di quel determinato prodotto, se noi arriviamo un minuto dopo la fine di quella promozione o se tutti i prodotti in promozioni sono stati venduti possiamo inventarci la qualunque ma non convinceremo il membro di quel negozio, che sia materiale o digitale, semplicemente perché quel membro non fa altro che impersonificare un’istituzione che come il Grande Fratello orwelliano sta sopra di noi, è l’istituzione del mercato. Potremmo anche dire che il capitalismo non contempla la clemenza, è vorace, aggressivo, onnicomprensivo, il capitalismo vive di scontri e di separazioni perché ogni scontro ogni separazione vuol dire rottura di una società ma inevitabilmente nascita di un’altra. Il capitalismo è felice quando i nostri telefonini vanno in tilt, inevitabilmente siamo costretti ad acquistare, quindi potremmo dire che il capitalismo è assolutamente inesorabile, ineluttabile e non certo clemente fino a quando si verificherà una rottura dello stato delle cose. Adesso non so se possiamo augurarci questa rottura perché parte dei pensatori o degli scrittori, tu hai citato la fantascienza, se pensiamo anche a colleghi che la vedono in maniera un po’ troppo ideologica, troppo futuristica, quindi si augurano una sorta di fine del mondo o si auguro una rivoluzione totale, francamente non ho mai ben capito a cosa si riferiscono. Perché la fine del mondo significa la fine, non è che il giorno dopo la guerra nucleare siamo tutti più uniti e ripartiamo da zero, significa sofferenza e dolore. Una rivoluzione totale cosa significa? Io vengo dai mesi parigini consueti c’è stata la riforma delle pensioni molto criticata da parte dei francesi che ha portato, in media, l’età per andare in pensione a 64 anni, noi italiani facciamo le risate, queste manifestazioni si sono tradotte in scioperi, giornate che non si è andati in università, scuola, lavoro, ma la sera? Un mio collega parigino ha vinto la regola della baguette che si traduce per nel fatto che la sera entro le 20 bisogna passare dalla boulangerie di riferimento per prendere il pane a prescindere da quello che hai fatto in mattinata o nel pomeriggio, quindi tutte le manifestazioni che abbiamo voluto alle 8 di sera tutto è ritornato. Qui rientra anche il concetto di rivoluzione digitale che è stata forse una delle più grandi illusioni collettive create nella storia dell’essere umano.”
Joe Casini: “Purtroppo siamo alle battute finali, immaginavo che la puntata sarebbe volata e l’ultimo passaggio di questo podcast è la domanda che chiamiamo il Secret Santa. Il primo ospite che ti propongo è Rossella Pivanti, content producer esperta di podcast con la quale abbiamo parlato di storytelling e dei nuovi media. Il secondo ospite è una coppia e sono Dario Simoncini e Marinella De Simone, quest’ultima presidente del complexity institute mentre Dario fondatore del complexity institute, con i quali abbiamo parlato di complessità a 360°. Il terzo ospite è Mafe De Baggis, esperta di comunicazione e digital strategist. Quale di questi tre ospiti ti incuriosisce di più?”
Massimo Cerulo: “Mafe De Baggis”
Joe Casini: “Qual è la cosa che avresti voluto scoprire prima che hai magari sempre avuto sotto al naso, magari l’hai anche un po’ snobbata, trascurata, e poi quando l’hai messa a fuoco hai detto ‘averlo scoperto prima!’? Ti è mai capitato nella ricerca o anche in privato?”
Massimo Cerulo: “Guarda ti rispondo in maniera professionale perché c’è un concetto professionale che io avrei voluto scoprire prima della collega che l’ha scoperto e che quindi l’ha concettualizzate ed è proprio quello di cui ti parlavo prima ovvero il lavoro emozionale o emotivo. è esattamente quello sforzo che noi quotidianamente, sia in maniera professionale sia in maniera privata, mettiamo in atto affinché la nostra espressione emotiva sia accettata dalla società. Tradotto: come dobbiamo comportarci affinché la società non faccia problemi, non ci ponga domande, non ci blocchino per strada. Il concetto di lavoro emozionale, emotional work nella versione originale inglese, è un concetto che avrei voluto teorizzare io, concettualizzare io e scrivere io quel libro che non ho scritto, però adesso possiamo diffonderlo.”
Joe Casini: “A questo punto è il tuo turno. C’è una domanda che vuoi lasciare per i prossimi ospiti?”
Massimo Cerulo: “Sì e riguarda un passaggio che ho fatto prima. La mia domanda è: cosa significa oggi restare in silenzio nella società digitale?”
Joe Casini: “Bellissima e non vedo l’ora che qualcuno la peschi per sentire la risposta. Intanto ti ringrazio per essere stato con noi. Do appuntamento a tutti voi per la prossima puntata tra due settimane del podcast, nel frattempo buona domenica a tutti.”