Nel 2007 il ricercatore Todd Rose e il neuroscienziato Ogi Ogas avviarono uno studio per capire quanto fosse comune tra le persone soddisfatte della propria vita l’aver seguito dei percorsi lavorativi tortuosi e poco lineari. Erano convinti che la cultura per loro dominante – ossia quella statunitense del lavoro per cui a ogni costo occorre trovare subito la propria strada e perseguirla fin da piccoli con scelte mirate e settoriali – fosse veramente molto diffusa e che solo in pochissimi fossero riusciti a raggiungere il successo nonostante un percorso molto variegato.
Il loro studio dimostrò invece che quelli che avevano seguito un percorso lineare erano una piccola minoranza. Tutti gli altri erano stati musicisti, baristi, manager o architetti prima di affermarsi in altre professioni, o viceversa.
Credo che la parte più interessante dello studio di Rose e Ogas sia il fatto che la quasi totalità di chi ha avuto un percorso tortuoso si vergognasse di raccontare la propria esperienza, perché troppo distante dalla cultura dominante. Così a rischio di essere tacciati come perditempo che piuttosto preferivano tenere per sè la propria soddisfazione e la propria felicità. Ma in realtà la felicità è un fatto pubblico, non privato.
Ho scoperto la storia di questo studio grazie a “Da grande”, un libro scritto da Giulio Xhaet e uscito da pochi giorni in cui si racconta – come suggerisce il sottotitolo – che non è mai troppo tardi per diventare quel che si vuole. Di Giulio avevo già letto “#contaminati“, il libro precedente che parlava di come i saperi e i percorsi professionali siano ormai sempre più ibridati, e in un certo senso “Da grande” ne è la naturale prosecuzione parlando di purpose, un tema che dopo gli ultimi tre anni è diventato di estrema attualità nelle aziende. Se cercaste “Da grande” in libreria (fatelo!) lo trovereste probabilmente nella categoria “self-help”, il che già la dice lunga su come approcciamo a questo genere di temi.
Esiste infatti questo mantra nella nostra società per cui i nostri stati emotivi in quanto “intimi” siano necessariamente da considerare “privati”. Ma in realtà il nostro livello di felicità è legato a doppio filo a quello delle persone con le quali siamo in contatto. E quando siamo felici non dovremmo solamente notarlo, ma anche farlo notare. Perché nell’ottica dell’interconnessione i nostri stati d’animo sono contagiosi, sia nel bene che nel male.
Esistono molti studi scientifici a riguardo, ma in fondo ci basta pensare alle nostre esperienze personali. Sappiamo bene ad esempio che passare del tempo in un ufficio o in una casa in cui le altre persone sono felici o ottimiste ci rende molto più felici e ottimisti di quel che saremmo se quell’ufficio o quella casa fossero popolati da persone frustrate o arrabbiate. È un fatto banale ma potentissimo, che ci ricorda che non siamo isole.
Non a caso nel 1943 lo psicologo Abraham Maslow ragionò su una gerarchia dei bisogni umani strutturata secondo un modello piramidale. La Piramide di Maslow è costituita da cinque livelli di necessità. Il livello centrale è occupato da amore e appartenenza: famiglia, relazioni, affetto e lavoro; appena sopra c’è il livello della stima: realizzazione, posizione sociale, responsabilità e reputazione. Il livello più alto della piramide è costituito dai “bisogni di autorealizzazione”, che hanno a che fare con la crescita e la soddisfazione personale, ma in realtà consistono nella dedizione a uno scopo più alto e nella volontà di servire la società.
In altre parole, i bisogni di ordine superiore sono bisogni sociali, basati sul principio che viviamo in connessione con altre persone e che le nostre vite e i nostri stati d’animo si influenzano vicendevolmente, ed è perciò impossibile essere soddisfatti fino in fondo se chi ci è accanto non è pienamente soddisfatto. Vi racconto un aneddoto, questo articolo nasce da un episodio. L’altro giorno avevo proprio una copia di “Da grande” sulla mia scrivania, il cui sottotitolo dice “non è mai troppo tardi per capire chi potresti diventare”. Un cliente è venuto da me per una riunione e dopo un po’ che parlavamo nota il libro e con una battuta mi fa “speriamo i miei dipendenti non lo leggano”! Ovviamente sulle prime ho riso, poi però mi sono domandato: se i tuoi dipendenti non fossero davvero felici, e bastasse quindi domandare loro quale è il proprio scopo nella vita per mettere in discussione tutto, preferiresti saperlo adesso oppure tra qualche anno, quando sarà aumentato non solo il loro malessere ma anche la loro centralità nella tua organizzazione?
Ecco perché essere felici e farlo notare è un po’ un atto sociale. E quindi diventa un atto politico e profondamente pubblico. E che in quanto tale deve spingerci a una riflessione politica: promuovere il benessere per tutti promuove il benessere di tutti. Cioè per avere una società fatta di persone più felici, più realizzate e dunque più sane bisogna pensare a politiche che promuovano il benessere del più ampio numero di persone possibili. Solo così l’impatto positivo della loro felicità potrà ripercuotersi a sua volta su un maggior numero di persone.