Pensate all’ultima volta che avete fallito in un compito. Può essere un compito qualsiasi, qualcosa di molto importante come partecipare a una gara di appalto oppure di più trascurabile come provare a convincere i vostri colleghi ad andare in trattoria invece che al bar per pranzo. Pensate all’ultima volta che avete fallito in un compito e pensate alla procedura con cui avete fallito. Potremmo generalizzarla in questi cinque passaggi:
- Avete stabilito un obiettivo
- Avete considerato i possibili modi in cui raggiungere l’obiettivo
- Avete analizzato le circostanze e le risorse che avevate a disposizione
- Avete valutato le diverse strategie alla luce delle risorse del punto precedente, stabilendo per ciascuna di esse una percentuale di successo
- Avete scelto e attuato la strategie che secondo voi aveva la più alta percentuale di successo
Ok lo ammetto, è una generalizzazione molto cognitiva e infatti in uno dei prossimi articoli avremo modo di tornarci sopra e metterci un po’ mano, ma per adesso siamo d’accordo che è un buon punto di partenza no?
Ovviamente ciascuno di questi passaggi può avere (ed ha) una componente inconscia che può essere più o meno consistente, ad ogni modo alla fine ciò che risulta decisivo per sapere se avremo successo o no è semplicemente se l’obiettivo che abbiamo stabilito rientra o no all’interno del nostro campo dell’efficacia, ovvero dello spazio di possibilità delimitato nei punti 3 e 4.
– Eh?!
Definire e misurare l’efficacia
Vi siete mai domandati a quali temperature sopravvivereste? In generale, la temperatura corporea umana media è di circa 37°C e il corpo cerca costantemente di mantenere questa temperatura attraverso la regolazione della sudorazione e della circolazione sanguigna, il che ci permette grossomodo di adattarci senza troppi problemi a temperature che oscillino tra i 32°C e i 38°C. Tuttavia, siamo in grado di sopravvivere a temperature estreme per periodi limitati di tempo in base ad una serie di fattori quali l’età, la salute, l’abbigliamento, l’idratazione, la durata dell’esposizione e la disponibilità di riparo e di fonti di calore.

Ecco che allora potremmo grossomodo riassumere il nostro campo dell’efficacia per l’obiettivo “sopravvivere” nel seguente modo, dove nelle ascisse trovate la temperatura ambientale (ovvero la sua variazione partendo dai 37°C) e nelle ordinate trovate la probabilità di sopravvivere. Prima che qualcuno si metta ore sotto al sole per dimostrare che ho torto vi dico subito che le probabilità sono inventate, servono solo a fissare visivamente il concetto e soprattutto a visualizzare in maniera più intuitiva come l’aumento delle risorse (ad esempio un’abbondante dotazione di acqua, oppure una giacca termica) ci consente anche di aumentare il nostro campo dell’efficacia.
Dall’efficacia individuale all’efficacia organizzativa: uno spunto di riflessione per la selezione del personale
Ovviamente possiamo traslare questo stesso principio dalla dimensione individuale a quella collettiva, laddove la “combinazione” dei campi dell’efficacia di ciascun membro determina il campo del gruppo nel suo insieme. Anche qui, il concetto può sembrare abbastanza ovvio (adoro le cose ovvie): se un membro all’interno di un gruppo è in grado di svolgere un compito, allora anche il gruppo nel suo insieme è in grado di farlo. Potremmo definirlo “il principio dell’anello forte”, in contrapposizione al più noto principio dell’anello debole.
Ed è qui che si apre uno scenario interessante se pensiamo alla funzione di selezione del personale nelle aziende.
Come specie animale siamo molto bravi a categorizzare la realtà, ovvero a mettere un’etichetta sopra qualsiasi cosa: a dire cosa è (e quindi cosa NON è) ogni cosa che vediamo, ogni evento che ci accade. I motivi per cui lo facciamo sono diversi e senz’altro avremo modo di tornarci sopra più avanti, ma uno dei risultati è che cerchiamo persone per le nostre aziende come fossero dei pezzi di ricambio.
«Mi serve un esperto di marketing» – e il responsabile HR sceglie dallo scaffale degli “esperti marketing” il modello che piace di più.
Questo tipo di approccio ha ovviamente diverse conseguenze (molte delle quali positive, motivo per cui lo abbiamo nel tempo adottato), ma vorrei soffermarmi su un paio di queste.
Primo: ad ogni categorizzazione corrisponde una prospettiva. Come cambierebbero i processi di selezione del personale se ad esempio dicessimo “ci serve una persona empatica”, e da lì partissimo con la ricerca dei CV?
Secondo: il rischio è poi quello di limitarsi sostanzialmente a quella prospettiva, per cui se devo assumere degli esperti marketing finirò con l’assumere semplicemente le persone più brave nel marketing. Può sembrare naturale, forse anche auspicabile, ma poniamo di avere tre candidati e di fare a ciascuno tre domande per selezionare chi assumere:

Come criterio per selezionare chi assumere potremmo utilizzare quello della performance – che è un criterio molto lineare – e quindi assumere nell’ordine prima B, poi C e infine A. Questo criterio, fino a poco tempo fa l’unico preso in considerazione dalle aziende e ancora oggi largamente utilizzato, risponde perfettamente ad una logica lineare di standardizzazione. Se però osserviamo nel dettaglio le risposte date dai tre candidati notiamo una cosa: è vero che B e C hanno risposto correttamente a un numero maggiore di domande, ma hanno saputo risolvere sostanzialmente gli stessi problemi ma soprattutto NON hanno entrambi saputo risolvere alcuni problemi… problemi che invece A sa risolvere! Di conseguenza, se invece del criterio della performance utilizzassimo quello della resilienza, allora sarebbe meglio selezionare B e A in quanto soluzione che garantisce la maggiore diversità e ovvero quella con il campo dell’efficacia più ampio!
In conclusione, una piccola nota autobiografica…
Non sono mai stato B. Fin da bambino mi sono appassionato a tantissime cose diverse, ma in nessuna di queste sono mai stato il migliore. Da grande volevo fare il fumettista, ho fatto anche la Scuola internazionale di Comics ma gli altri mi sembravano tutti bravissimi rispetto a me. Ho giocato per tanti anni a pallavolo, ero un buon palleggiatore ma anche lì… e così via per l’informatica, la scrittura, la facoltà di Economia, Psicologia…
Il fatto che io abbia trovato il modo di trasformare il mio essere “abbastanza bravo in tante cose” in un punto di forza non vuol dire che per tanti anni, soprattutto alla fine del liceo e durante l’università, non essere B non mi facesse sentire a disagio. Guardare al futuro mi metteva ansia, per colpa anche di una cultura lineare e della performance che ci insegna che devi avere subito le idee chiare, scegliere ancora adolescente cosa fare nella vita ed essere il migliore a farlo.
Quando ho iniziato a fare degli interventi nelle università, mi è subito venuto spontaneo cominciare i miei interventi partendo proprio da questo. Pensavo che forse uno di loro oggi poteva sentirsi come mi sentivo io alla loro età, e ho scoperto che purtroppo non è mai uno soltanto. Quando racconto questa storia non c’è mai nessuno che intervenga, che dica qualcosa, che racconti il suo vissuto. Soltanto alla fine degli incontri cominciano ad avvicinarsi, mi raccontano che si rivedono in questo racconto, che hanno paura di non essere adeguati. Alcuni non riescono neanche ad avvicinarsi e mi scrivono in DM sui social media, altri invece mentre parlano si commuovo e cominciano a piangere. Ecco perché credo che sentirsi efficaci nel mondo non voglia dire soltanto avere successo, ma anche sentirsi bene con se stessi.